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D'Annunzio. Da "Sera fiesolana" a "I pastori". “Sera fiesolana” Entriamo subito in “Sera fiesolana” che rappresenta uno dei testi più importanti dell’Alcyone. Nella scorsa lezione, è stato detto che il primo gruppo di liriche dell’Alcyone racconta in maniera molto musicale quel cambiamento, quel trascolorare della primavera verso l’estate, che è l’età adulta, considerata più viva anche dal punto di vista linguistico si nota che si discosta molto da Pascoli. In questa morente primavera, che però annuncia l’estate, la solarità e anche la grande forza della natura, la “Sera fiesolana” è uno dei vertici della poesia dannunziana. Come in quasi tutte le liriche di D’Annunzio, anche in questa, non c’è un centro narrativo proprio perché la poesia ha una sua connotazione lirica e non intende interpretare altro. Piccola digressione per comprendere questo ultimo concetto. Per molto tempo la pittura ha voluto rappresentare la figura della natura, la figura delle persone, poi ad un certo punto sono arrivati gli impressionisti e hanno scombussolato tutto o anche personaggi come Pollock che buttano il colore su tela in modo spontaneo lasciandolo sgocciolare. La pittura non deve essere rappresentazione di nulla, perché ha introdotto “nuove tecniche” come la fotografia e il cinema. Ecco, la stessa cosa avviene per la poesia. La poesia deve fare la poesia non deve raccontare, ma nel Novecento troverete autori che raccontano, autori che privilegiano anche nella poesia la prosa e autori che invece vogliono darvi queste suggestioni. Riprendendo la “Sera fiesolana”, come già detto che non c’è un centro narrativo ma non c’è nemmeno un riferimento preciso a una situazione sentimentale che è colta in un suo svolgimento logico, prevale nuovamente l’analogia. La sola presenza umana acquista un che di evanescente, quindi il poeta si sente ancora una volta a stringere con la donna amata che diviene un pretesto. Queste strofe segnano i momenti di una avventura ideale. Protagonista è il paesaggio, come in “Pioggia nel pineto”, in cui subentra la sera o meglio lento morire del crepuscolo: c'è questo crepuscolo e l’attesa di quella che poi sarà la notte, le stelle, che sono tutti degli archetipi della poesia lirica. Poniamo attenzione su tutta l’aggettivazione, in alcuni casi vi sembrerà di leggere il recupero del “Cantico delle Creature”, D’Annunzio è un personaggio che pur avendo avuto una vita piena di vizi ad un certo punto è molto legato a figure come quella di Francesco d’Assisi. La poesia è divisa in 3 strofe da 14 versi di varia misura, prevale l’endecasillabo. Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo! Prima strofa abbiamo immagini di pretesto che vogliano essere molto evocative (citarne alcune):
eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte. Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle! Terza strofa si accentua il carattere essenziale della poesia. Questa misteriosa corrispondenza fra le parole del poeta e il paesaggio serale, che culmina con una mistica comunione con la natura. Notiamo che all’inizio di questa strofa dice: “Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume”, il fiume di cui sta parlando e il fiume Arno, che sembra invitare a misteriosi reami d’amore. L’amore anche qui è fatto di sensualità trasfigurata che aspira a qualcosa di sovrumano, infatti, l’amore è un segreto. I versi che vanno dal 40, c’è questo profilarsi dei colli fiorentini nella luce lunare che li fa assomigliare a delle labbra protese nell’ansia di qualcosa, quindi la sua sensualità, la sua concezione di carattere corporale, viene riportata anche in questa poesia. Attenzione che qui è il desiderio la cosa importante non la realizzazione del desiderio, mette in luce molto bene l’attesa che deve restare desiderio (come in pioggia nel pineto). Infine, c’è nuovamente questo lodare ancora la sera per la sua pura serenità. Questa idea di serenità che è uguale ad una specie di atarassia, cioè la morte, quel momento in cui non desideriamo più niente. (come nel Cantico delle Creature quando parla della seconda morte corporale “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale… Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male”). Quest’ultima parte chiude con un abbandonarsi alla natura e alla morte come morte corporale che placa tutti i senti e quest’ultimo commiato chiude con stelle; quindi, si fa riferimento nuovamente a Dante. “I pastori”
È l’ultima parte dell’Alcyone ed è una bellissima elegia che trascolora proprio in una dolce e sottile malinconia quel tema dell’autunno (Abbiamo detto che l’Alcyone è la stagione estiva, però l’estate in Pioggia nel pineto è quella del periodo maggio/giugno, qui invece andiamo verso la stagione autunnale). È una memoria quasi mitica e anche favolosa della sua terra natale. (D’Annunzio nato a Pescara l’idea della sua infanzia, della vita primitiva vissuta come mito, anche un po' retorico). Vengono annoverati i gesti dei pastori, gesti lenti sempre uguali, tramandati di generazione in generazione. È una poesia commossa, una poesia che non sembra scritta da D’Annunzio, perché lui non avrebbe mai fatto come i suoi pastori, però conclude dicendo “Ah perché non son io co’ miei pastori?”. Dal punto di vista stilistico la stanza che leggeremo è quasi fuori dal tempo. Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all'Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d'acqua natia rimanga ne' cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d'avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, pel tratturo: è un sentiero quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh'esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l'aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io cò miei pastori? È l’immagine di questa stagione che va verso l’autunno che è ancora abbastanza luminosa e l’idea del pastore diventa quasi un qualcosa in cui lui si identifica per l’innocenza (un’innocenza che vorrebbe essere una memoria). Siamo di fronte ad un'immagine molto bella, anche attraverso la sua musicalità “Isciacquìo, calpestìo, dolci romori" e questi gesti che rappresentano il segno immutato delle cose e della vita.