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potere alle parole - riassunto, Cheat Sheet of Communication

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Typology: Cheat Sheet

2023/2024

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POTERE ALLE PAROLE
ANTIPASTO
Vari episodi di piccoli disagi quotidiani sono la dimostrazione delle difficoltà legate all'uso degli strumenti
linguistici «in ingresso» (mancata comprensione di un messaggio)
o «in uscita» (problemi a mettere in parole ciò che vorremmo esprimere). Tutti (piú o meno) sappiamo leggere e
scrivere; ma non sempre riusciamo a farlo bene, o nella maniera migliore, e talvolta ce ne rendiamo conto nel
peggiore dei modi.
Poiché impariamo a leggere e scrivere molto precocemente nella nostra vita, succede che finiamo per dare questa
competenza un po' per scontata.
Rispetto a competenze piú pratiche, quella linguistica potrebbe sembrare meno rilevante.
Al contrario, nella società di oggi, definita non a caso società della comunicazione, la vita di ognuno di noi è piena
di situazioni che richiedono di usare la lingua, e di usarla possibilmente bene.
Quando non lo facciamo, rischiamo conseguenze spiacevoli di ogni sorta. Possiamo venire disprezzati, stigmatizzati
come persone poco acculturate, possiamo perdere tempo, diventare vittime di un fraintendimento, non riuscire a
dire la nostra su una questione per noi fondamentale.
Abbiamo però la possibilità di perfezionare la conoscenza della lingua e dei suoi meccanismi diventando, in questo
modo, persone piú forti, piú potenti, meno schiave delle sollecitazioni e delle decisioni altrui e, soprattutto, capaci
di arrivare piú lontano. La competenza, in fondo, ci viene concessa praticamente per diritto di nascita; tutto sta
nell'affinarla, o continuare a tenerla in esercizio senza impigrirci troppo, senza darla per scontata. La capacità
linguistica è come un muscolo: va allenata.
Padroneggiare gli strumenti linguistici non vuol dire «parlare come un libro stampato» sempre e comunque; vuol
dire essere capaci di scegliere, in ogni situazione, il registro linguistico piú consono a essa.
La nostra educazione linguistica è piena di falsi miti. Molte persone pensano che parlare dialetto sia disdicevole, o
che usare i neologismi comporti dimenticarsi delle care, vecchie parole già esistenti. C'è chi afferma che se
iniziamo a parlare inglese, finiremo per scordarci l'italiano, altri invece sono convinti al contrario che dobbiamo
soppiantare l'italiano con l'inglese per restare «al passo con i tempi»; c'è poi chi ritiene che l'italiano venga
corrotto da qualsiasi parola che acquisiamo da lingue diverse. Altri ancora sono convintissimi che esista una e una
sola lingua «corretta», una norma immutabile nel tempo e nello spazio, e che ogni cambiamento non possa che
essere negativo. Infine, per alcuni, preservare la lingua, possibilmente uguale a sé stessa (sí, con l'accento; poi
vedremo perché), perfetta e pura, equivale a salvaguardare la nostra cultura e la nostra italianità.
1. CHE COS’È UNA LINGUA (E A COSA SERVE)
1.1. PERCHÉ PARLIAMO
Perché parliamo? Perché non ci limitiamo a emettere una gamma di grugniti, come fanno gli animali?
Il linguaggio ha profondissime basi biologiche. Potremmo affermare che sia nato dalla necessità, sentita come
fondamentale dai nostri progenitori, di comunicare in maniera piú efficace le esperienze.
Dunque, noi parliamo perché è il modo piú economico, perfezionato nel corso di decine di migliaia di anni di
evoluzione, per trasmetterci le informazioni. In particolare, potremmo dire che la lingua, qualsiasi lingua,
svolga tre funzioni principali:
1) Definire sé stessi: ogni parola che scegliamo e non scegliamo di usare racconta qualcosa di ciò che
siamo e non siamo. Abbastanza letteralmente, le parole sono atti di identità. Con la parola dichiariamo,
ad esempio, di far parte di una certa comunità linguistica e non di un'altra.
La lingua unisce e divide, e chiunque si sia occupato o si occupi di questioni politiche sa quanto conta,
nell'auto-definizione di un popolo, l'identità linguistica.
2) Descrivere il mondo: esistono molte possibilità espressive che ognuno di noi ha per dire con parole sue
quello che percepisce della realtà (es. quando ci innamoriamo di una persona: i modi per descriverla,
per descrivere quel sentimento, non bastano mai). Ma c'è di piú: le lingue che parliamo condizionano il
modo stesso in cui vediamo il mondo, e viceversa:
- La realtà influenza la lingua per esempio, posso creare una nuova parola se nella realtà che mi
circonda compare qualcosa che prima non esisteva
- La lingua che parlo influenza il mio modo di vedere la realtà per esempio, chiamare
insistentemente invasione il fenomeno dell'immigrazione - laddove invasione, da vocabolario
indica «irruzione violenta di persone in un luogo» o «diffusione nociva e inarrestabile» - non può
forse concorrere, alla lunga, a un cambiamento nel modo di percepire il fenomeno stesso?
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POTERE ALLE PAROLE

ANTIPASTO

Vari episodi di piccoli disagi quotidiani sono la dimostrazione delle difficoltà legate all'uso degli strumenti linguistici «in ingresso» (mancata comprensione di un messaggio) o «in uscita» (problemi a mettere in parole ciò che vorremmo esprimere). Tutti (piú o meno) sappiamo leggere e scrivere; ma non sempre riusciamo a farlo bene, o nella maniera migliore, e talvolta ce ne rendiamo conto nel peggiore dei modi. Poiché impariamo a leggere e scrivere molto precocemente nella nostra vita, succede che finiamo per dare questa competenza un po' per scontata. Rispetto a competenze piú pratiche, quella linguistica potrebbe sembrare meno rilevante. Al contrario, nella società di oggi, definita non a caso società della comunicazione, la vita di ognuno di noi è piena di situazioni che richiedono di usare la lingua, e di usarla possibilmente bene. Quando non lo facciamo, rischiamo conseguenze spiacevoli di ogni sorta. Possiamo venire disprezzati, stigmatizzati come persone poco acculturate, possiamo perdere tempo, diventare vittime di un fraintendimento, non riuscire a dire la nostra su una questione per noi fondamentale. Abbiamo però la possibilità di perfezionare la conoscenza della lingua e dei suoi meccanismi diventando, in questo modo, persone piú forti, piú potenti, meno schiave delle sollecitazioni e delle decisioni altrui e, soprattutto, capaci di arrivare piú lontano. La competenza, in fondo, ci viene concessa praticamente per diritto di nascita; tutto sta nell'affinarla, o continuare a tenerla in esercizio senza impigrirci troppo, senza darla per scontata. La capacità linguistica è come un muscolo: va allenata. Padroneggiare gli strumenti linguistici non vuol dire «parlare come un libro stampato» sempre e comunque; vuol dire essere capaci di scegliere, in ogni situazione, il registro linguistico piú consono a essa. La nostra educazione linguistica è piena di falsi miti. Molte persone pensano che parlare dialetto sia disdicevole, o che usare i neologismi comporti dimenticarsi delle care, vecchie parole già esistenti. C'è chi afferma che se iniziamo a parlare inglese, finiremo per scordarci l'italiano, altri invece sono convinti al contrario che dobbiamo soppiantare l'italiano con l'inglese per restare «al passo con i tempi»; c'è poi chi ritiene che l'italiano venga corrotto da qualsiasi parola che acquisiamo da lingue diverse. Altri ancora sono convintissimi che esista una e una sola lingua «corretta», una norma immutabile nel tempo e nello spazio, e che ogni cambiamento non possa che essere negativo. Infine, per alcuni, preservare la lingua, possibilmente uguale a sé stessa (sí, con l'accento; poi vedremo perché), perfetta e pura, equivale a salvaguardare la nostra cultura e la nostra italianità.

1. CHE COS’È UNA LINGUA (E A COSA SERVE)

1.1. PERCHÉ PARLIAMO

Perché parliamo? Perché non ci limitiamo a emettere una gamma di grugniti, come fanno gli animali? Il linguaggio ha profondissime basi biologiche. Potremmo affermare che sia nato dalla necessità, sentita come fondamentale dai nostri progenitori, di comunicare in maniera piú efficace le esperienze. Dunque, noi parliamo perché è il modo piú economico, perfezionato nel corso di decine di migliaia di anni di evoluzione, per trasmetterci le informazioni. In particolare, potremmo dire che la lingua, qualsiasi lingua, svolga tre funzioni principali:

  1. Definire sé stessi : ogni parola che scegliamo e non scegliamo di usare racconta qualcosa di ciò che siamo e non siamo. Abbastanza letteralmente, le parole sono atti di identità. Con la parola dichiariamo, ad esempio, di far parte di una certa comunità linguistica e non di un'altra. La lingua unisce e divide, e chiunque si sia occupato o si occupi di questioni politiche sa quanto conta, nell'auto-definizione di un popolo, l'identità linguistica.
  2. Descrivere il mondo : esistono molte possibilità espressive che ognuno di noi ha per dire con parole sue quello che percepisce della realtà (es. quando ci innamoriamo di una persona: i modi per descriverla, per descrivere quel sentimento, non bastano mai). Ma c'è di piú: le lingue che parliamo condizionano il modo stesso in cui vediamo il mondo, e viceversa:
  • La realtà influenza la lingua  per esempio, posso creare una nuova parola se nella realtà che mi circonda compare qualcosa che prima non esisteva
  • La lingua che parlo influenza il mio modo di vedere la realtà  per esempio, chiamare insistentemente invasione il fenomeno dell'immigrazione - laddove invasione, da vocabolario indica «irruzione violenta di persone in un luogo» o «diffusione nociva e inarrestabile» - non può forse concorrere, alla lunga, a un cambiamento nel modo di percepire il fenomeno stesso?
  1. Comunicare con gli altri : condizione naturale dell'essere umano, che è un animale sociale. Usare le parole giuste oggi assume un'importanza ancora maggiore, dato che ognuna di esse può essere fraintesa piú facilmente quando l'interlocutore è molto lontano dal nostro mondo e modo di vedere le cose. L'esempio piú evidente è quello di una battuta che siamo sempre stati abituati a fare senza grossi effetti collaterali nel quotidiano e che improvvisamente scopriamo diventare offensiva per chi non ci conosce bene. Quando questo succede, tendiamo tutti a difenderci dicendo «ma no, ero ironico/a, non hai capito la battuta», ma non sempre possiamo giustificarci in questo modo se ciò che abbiamo detto ha ferito o offeso l’altra persona.

1.2. CHE COS’È UNA LINGUA

La lingua è un codice. Come tutti i codici, occorre che sia condiviso da una comunità di parlanti: in altre parole, i membri della comunità devono essere d'accordo sui nomi dati alle cose. Se una parola vuol dire una certa cosa all'interno di una certa lingua, l'accoppiata tra significante e significato , come diceva il grande linguista Saussure, è sí, arbitraria, ma una volta decisa diventa tendenzialmente Stabile. Esempio: non c'è un vero motivo per cui la ciliegia si debba chiamare ciliegia e non, per esempio, litchi. Ma dal momento che la ciliegia è stata definita come «il frutto del ciliegio, costituito da una piccola drupa succosa di colore variabile dal rosa al rosso intenso», sarebbe sbagliato chiamarla litchi o anche Ermenegilda: violeremmo quel contratto silenzioso tra noi, parlanti dell'italiano, in base al quale siamo tutti d'accordo di chiamare ciliegia la ciliegia. Per finire il discorso sulla lingua, ricordiamo anche che si tratta di un codice condiviso che per funzionare ha bisogno di specifiche regole che usiamo per comunicare. La comunicazione, quando funziona, ha una caratteristica precipua: nessuno dei partecipanti è passivo. Anche chi assiste, chi ascolta, e ha un ruolo apparentemente meno rilevante, è centrale al processo. Esempio: se mi tappo le orecchie quando una persona mi sta parlando, io mi nego alla comunicazione, per quanto l'altro possa impegnarsi. Nel nostro comunicare, creiamo testi. La parola deriva dal latino textus , alla base anche del termine tessuto. Il testo, come il tessuto, è qualcosa che si crea intrecciando i fili del nostro discorso. Possiamo definire testo qualsiasi prodotto della nostra comunicazione, sia scritta sia parlata : un discorso è un testo, una lezione di scuola è un testo, un libro è un testo, ma sono testi anche una lista della spesa, uno scontrino, un cartello stradale o una foto pubblicata su Instagram. Un testo, solitamente, è tale perché ha dei limiti riconoscibili : una lezione ha un inizio e una fine, una fotografia ha dei bordi, un libro ha la copertina.

1.3. IN CHE MODO SI CONOSCONO LE LINGUE?

Di per sé, la conoscenza linguistica non ha confini: teoricamente il nostro cervello può conoscere un numero illimitato di lingue. Per lunghi decenni, prima dell'esistenza di Tac e risonanze magnetiche, si cercò di capire come funzionasse il cervello soprattutto da osservazioni indirette: per esempio, studiando i «bambini selvaggi», ossia bambini che, per accidenti vari, non avevano avuto contatti con altri esseri umani per i primi anni della loro vita. Ebbene, questi bambini, reintrodotti tardivamente «in società», non riuscivano a imparare nessuna lingua come lingua madre, cioè con quella profondità e spontaneità che implica la conoscenza della lingua che sentiamo parlare intorno a noi sin dai primissimi istanti della nostra esistenza. Queste osservazioni, e tanti studi successivi, ci hanno fatto supporre l'esistenza di una parte innata del linguaggio che ci portiamo dentro sin da prima della nascita , e che ci permette, se esposti ai giusti stimoli, di imparare una lingua madre (o due, o tre, o n): quella in cui vivremo immersi nella decade iniziale della nostra vita. Dopo la chiusura del periodo-finestra, invece, potremo continuare a imparare altre lingue, ma mai al livello della o delle lingue madri. Sappiamo anche che esistono delle parti del cervello adibite specificamente alla conoscenza linguistica : l'area di Broca e l'area di Wernicke. Studiando il comportamento di pazienti che avevano subito una specifica menomazione cerebrale, magari per colpa di una malattia o di un incidente, gli studiosi da cui prendono il nome le aree cerebrali si accorsero che, a seconda di quale fosse l'area lesionata, si perdeva un tipo di funzione linguistica:

E tutto questo è assolutamente giusto; tuttavia, per non soccombere alla relatività totale, c'è anche bisogno di un po' di norma, nel nostro parlare.  Da una parte, abbiamo bisogno di assimilare delle regole per imparare a usare meglio la nostra lingua;  dall'altra, non si può ignorare la pressione che l'uso esercita sulla norma, provocando a lungo andare cambiamenti in essa. E questo ci porta al terzo punto della definizione citata dalla Treccani: “Un insieme di regole, che riguardano tutti i livelli della lingua (fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità), accettato da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storico-culturale ". - Treccani

  • in un determinato periodo e contesto storico-culturale : la norma, nel corso del tempo, può modificarsi. Forme che una volta erano considerate scorrette oggi sono corrette, ma anche viceversa Come la lingua è in evoluzione perenne anche solo per stare al passo con i tempi - e con i parlanti, le loro esigenze, la loro visione del mondo - cosí la norma si aggiorna di conseguenza. In un certo senso, si potrebbe dire che il compito dei linguisti, in parte, è comprendere quando una lectio minor , o un errore, si fanno prevalenti al punto da diventare norma. es:
  • ai tempi di Leopardi era normale scrivere facci per faccia  «Spontaneamente non isperare che facciano motto, per grandezza di valore che tu dimostri, per bellezza d'opere che tu facci».
  • In questo momento ci sono varie questioni molto discusse: una è quella del piuttosto che usato in senso disgiuntivo, al posto del semplice o , e in alcuni casi estremi perfino al posto di e. Il parere di molti linguisti è che piuttosto che usato come o o come e sia un uso distorto, fuorviante, poco chiaro. Ma dall'altra parte abbiamo persone anche estremamente colte, che potremmo addirittura definire influencer linguistici, che usano piuttosto che a tutto spiano.
  • Il problema della prima persona plurale dell'indicativo presente dei verbi con tema in gn : guadagniamo, sogniamo, vergogniamoci, insegniamo. Una grafia molto diffusa, e da tanti ritenuta corretta, è senza la i : quella i, in quella posizione, appare davvero strana. A che serve? Ovviamente il motivo della presenza di quella strana i si cela nella morfologia, ossia nel modo in cui si costruisce quella specifica voce verbale: al tema del verbo (che in questo caso è guadagn-) si unisce il suffisso che serve per formare la prima persona plurale dell'indicativo presente di tutti i verbi, che è - iamo.

2.3. NON È NORMA CIÒ CHE È USO, MA È NORMA CIÒ CHE PIACE

Dovendo sintetizzare quanto detto finora, potremmo dire questo: la norma alla fine corrisponde a ciò che viene percepito come giusto in uno specifico momento storico e sociale.

2.4. CHI DETTA LEGGE?

Il desiderio di trovare qualcuno che abbia l'ultima parola è molto umano. Ma c'è sempre un problema di autorevolezza, quando si parla di questioni linguistiche. Molto spesso, questa autorità massima viene identificata con l'Accademia della Crusca, spesso accusata di essere troppo lassista, troppo descrittivista invece che prescrittivista. Se la lingua è fatta dall'uso, se gli utenti, tutti gli utenti, hanno un ruolo attivo nella definizione della norma, chi è che ha l'ultima parola? La resistenza dell'italiano ad avere dei padroni ha salde radici storiche e culturali: uno dei pochi momenti in cui si è tentato di imporre delle regole dall'alto è stato durante il fascismo, quando si pretendeva di praticare l'autarchia anche a livello della lingua, bandendo tutti i termini stranieri e sostituendoli con parole italiane. L'autarchia linguistica, al di là di quanto è rimasto, ha lasciato un nervo scoperto negli italiani: l'idea che ogni imposizione linguistica dall'alto sia da evitare. E quindi la Crusca osserva, studia, registra, consiglia, ma non impone. Una delle principali caratteristiche del linguista è proprio quella di dare giudizi con cautela, di preferire la comprensione del fenomeno, la riflessione su di esso. Però non sono loro a decidere, a sentenziare sulla lingua. Quello, alla fine di tutto, lo fa la massa dei parlanti.

2.5. E LA SCUOLA?

Anche se cosí tanto dipende dai parlanti, la scuola ha un ruolo fondamentale, che è quello di trasmettere l'intelaiatura delle competenze linguistiche. È sicuramente vero che è difficile, per un ente tanto complesso, stare al passo con i tempi. Molti si chiedono a cosa serva ripetere le cose, o imparare le poesie a memoria  si parte da quelle capacità di base per arrivare a una competenza linguistica superiore. La scuola deve addestrare, insomma, a conoscere la norma, perché solo conoscendola la si può trasgredire. Chi, invece, scrive come viene, senza conoscere la norma o fregandosene della sua esistenza, non è trasgressivo, è solo ignorante o menefreghista.

2.6. ERRORI SOCIALMENTE RIPROVEVOLI E GRAMMARNAZI (nazisti della grammatica)

I linguisti stessi tendono a definire l'errore uscendo dall'ambito strettamente linguistico: l'errore è quella cosa che devia dalla norma e che provoca riprovazione sociale. In altre parole, non è un torto commesso alla dea della lingua o alla professoressa di lettere, ma è quello che ci fa fare una figuraccia ed è mutevole. L'indicazione migliore potrebbe dunque essere quella di parlare e scrivere al meglio delle proprie possibilità, sia per una questione di contegno linguistico sia come gentilezza nei confronti degli altri; c'è però poi una seconda questione importante che riguarda l'atteggiamento da tenere nei confronti dei comportamenti linguistici altrui. Ci sono persone che davanti a un *perché o una domanda di lingua posta troppo ingenuamente si indignano come se gli fosse stata letteralmente offesa la madre. Sono chiamati Nazisti della grammatica: la caratteristica classica del nazista della grammatica è quella di essere completamente inflessibile davanti agli svarioni linguistici altrui, senza alcun tentennamento. Il grammarnazi è solitamente una persona mediamente colta o colta sopra la media, che però si è in qualche modo fossilizzata su una posizione intransigente e soprattutto di disprezzo nei confronti di chi, per un motivo o per l'altro, non usa bene la propria lingua madre; e questo disprezzo lo esprime solitamente in maniera odiosa e giudicante.

2.7. ANATEMI LINGUISTICI E DOVE TROVARLI

In campo linguistico accade spesso che, quando abbiamo a che fare con nozioni imparate a scuola, tendiamo a mostrarci indisponibili a cambiarle, a prendere atto che magari quelle cose di cui eravamo cosí certi sono obsolete, superate. Ogni cambiamento richiede da parte nostra un adattamento, e gli adattamenti non sono indolori. Vediamo qualche esempio di fissazione linguistica molto diffusa: 1) «A me mi» non si dice. Pur essendo questo un vero anatema scolastico, sarebbe piú preciso affermare che a me mi non si scrive in un contesto sorvegliato, alto, come potrebbero essere una lettera di lavoro o un curriculum vitae, ma nulla vieta di usarlo nella nostra comunicazione informale, quotidiana 2) Il congiuntivo sta morendo. Anche questo è vero solo in parte. Il fatto che sbagliare un congiuntivo provochi un’irritazione nelle persone significa che la riprovazione sociale è ancora sufficientemente alta; talmente alta che molte persone tendono a diventare ipersensibili riguardo alla sequenza se + condizionale anche quando questa è usata correttamente, come nelle insidiosissime interrogative indirette , quelle come mi domando se avrei la forza di finire questo compito/ se sarei in grado di fare questa operazione. Se invece qualcuno fosse preoccupato o urtato da frasi come se lo sapevo non venivo al posto di se lo avessi saputo non sarei venuto , occorre rassicurare tutti: anche questa soluzione è corretta in contesti di medio-bassa formalità (per esempio, in uno scambio informale su WhatsApp). Insomma, il congiuntivo è molto meno morto di quanto siamo portati a pensare. 3) «Famigliare» e «obbiettivo» sono sbagliati, occorre scrivere «familiare» e «obiettivo». Una innecessaria semplificazione della realtà dei fatti: entrambe le forme sono corrette, sia in un casosia nell'altro. Semplicemente, familiare e obiettivo sono le forme piú vicine all'etimo latino, mentre le altre due sono piú popolari, ma non errate.

parte delle persone, che solo molto tardivamente, o per caso, scoprono di avere sbagliato pronuncia per tutta la vita. Una situazione tipica è quella della ritrazione dell'accento su moltissime parole.

2.9. QUESTIONI DI REGISTRO

Per riassumere, la lingua è lontana dall'essere monolitica; cosí come monolitica non è la norma, che è a sua volta un sistema complesso e che, a ben vedere, è piú simile a un insieme di principi etici che non di teorie strettamente scientifiche. Non dobbiamo pensare in termini di giusto e sbagliato, ma di piú giusto e piú sbagliato per una certa situazione rispetto a un'altra.

3. IL GRANDE MISTERO DELL’ITALIANO

3.1. SETTE SECOLI IN MEZZ’ORA

  • Sappiamo che l'italiano discende dal latino, e possediamo vari documenti che attestano la fase di passaggio dal latino al cosiddetto volgare, che si chiama cosí perché era la lingua parlata dal volgo, cioè dai popolo. Uno di questi è un estratto dai Placiti Cassinesi, scritti all'incirca nel 960 dopo Cristo a Capua: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti». La rilevanza della testimonianza è grande perché questo frammento, scritto palesemente non piú in latino, è «incastonato» in un testo latino; questo indica che c'era coscienza, in chi l'aveva stilato, della differenza tra le due lingue: quella usata per la «cornice» testuale e quella della frase che doveva risultare comprensibile ai contadini. Tra l'altro, una delle caratteristiche del documento è che contiene delle k invece che delle c, mentre è molto diffusa la convinzione che la k sia una lettera straniera.
  • Nel x secolo, tra i documenti che indicano il passaggio in corso dal latino al volgare abbiamo un vero e proprio graffito, una scritta incisa sul muro della catacomba di Commodilla a Roma, zona Ostiense: non dicere ille secrita a bboce «non recitare le (cose che devono rimanere) segrete a voce alta». Non solo vi si può osservare un fenomeno tipico dell'oralità romana (il passaggio da u a b detto betacismo, e il raddoppiamento fonosintattico, ossia la pronuncia doppia della consonante di inizio parola quando quella precedente finisce con vocale in origine seguita da consonante, dopo a anche nell'italiano standard di base toscana), ma la seconda b è stata persino aggiunta a mo' di correzione a posteriori. Una testimonianza di scrittura semicolta, cosí lontana dalla scrittura sicuramente piú corretta e regolare, ma anche un po' immota, propria degli intellettuali e di chi ha studiato. E questo ci porta alla costante distanza, visibile ancora oggi, tra la lingua italiana dell'élite culturale e quella del «popolo».
  • Se provassimo a leggere Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (fine Trecento) noteremmo che è di difficile comprensione, e lo sarebbe anche per un madrelingua inglese. A confronto, la Divina commedia di Dante ci risulterebbe molto più leggibile, senza grandi sforzi. Come mai questa differenza tra italiano e inglese? Come mai noi riusciamo a leggere Dante senza grandi sforzi, mentre un inglese deve compiere un'operazione simile alla traduzione, per comprendere un quasi contemporaneo di Dante? Ci sono motivi storici e culturali specifici che ci permettono di fare questo: motivi che, complessivamente, hanno fatto sí che l'italiano si conservasse quasi uguale a sé stesso nel corso dei secoli. Quando Pietro Bembo, nel Cinquecento, stila le Prose della volgar lingua , trattato considerato la prima grammatica dell'italiano, non si rifà alla lingua parlata al suo tempo, ma a quella di Dante, Petrarca e Boccaccio, vissuti due secoli prima. Come se oggi, in un certo senso, un grammatico scrivesse il suo testo basandosi su insigni scrittori dell'Ottocento. La norma, insomma, già nasce con un'interessante anomalia: non tiene conto della lingua dei contemporanei dell'autore, ma opera un recupero vintage di una lingua di due secoli prima, e per di piú di una specifica varietà regionale.
  • La lingua dell'uso continuava a non essere rilevante nonostante l'idea portata avanti dagli Accademici della Crusca che il Vocabolario potesse essere un mezzo efficace per divulgare la conoscenza dell'italiano. A questo proposito, occorre ricordare una delle caratteristiche principali della Crusca, oggi considerata spesso una sorta di baluardo del purismo e del prescrittivismo: la Brigata dei Crusconi inizia le proprie riunioni informali in aperta opposizione all'Accademia Fiorentina, sentita come troppo rigida e normativa.

Ai discorsi troppo seri e troppo grammarnazi dell'Accademia Fiorentina contrapponevano le cruscate, discorsi leggeri e giocosi. La scelta di denominarsi come la parte piú povera del chicco di grano, le «bucce», sottenda a una precisa volontà dei fondatori: ricordare che per un linguista non esiste nulla che non sia degno di venire studiato.

  • Arriviamo al 1861, l'Unità d'Italia: non era bastato dichiarare l'unità d'Italia, occorreva unire le persone. E uno dei modi piú importanti di farlo era proprio quella di insegnare loro la lingua nazionale. La quantità di persone che potevano definirsi italofone, in quegli anni, coincideva all'incirca con gli abitanti delle regioni centrali dell'Italia, in particolare la Toscana, il cui dialetto si avvicinava alla norma dell'italiano. Come fare, dunque, a far diventare italofoni gli abitanti della neonata Italia? Si pensò di agire su piú fronti: da una parte, l'obbligo scolastico, dall'altra parte, il servizio di leva. Ciononostante, né l'una né l'altra cosa agirono davvero a fondo: ci vollero ben cento anni per arrivare a una diffusione soddisfacente dell'italiano come lingua parlata.

3.2. PER COMPLICARE ANCORA: I DIALETTI

La specifica varietà di dialetto che Bembo sceglie come base per la lingua nazionale viene «promossa a lingua» per motivi, di fatto, piú socioculturali che linguistici. Gli altri dialetti rimangono tali perché non vengono destinati, quasi a tavolino, a diventare la lingua nazionale. Ma qualsiasi dialetto italiano non ha nulla da invidiare all'italiano stesso come complessità: quelli che oggi chiamiamo dialetti non sono varietà «figlie» dell'italiano, ma «sorelle» di quella che ha raggiunto uno status piú alto. La distinzione tra lingua e dialetto si basa su fattori esterni al sistema linguistico, infatti, la differenza primaria tra lingua nazionale e dialetti sta nelle funzioni alle quali adempiono:

  • il dialetto viene usato in un ambito piú circoscritto geograficamente e non possiede tutti gli strumenti lessicali e sintattici necessari per scrivere i testi di massima complessità sia in campo umanistico sia scientifico; non li possiede perché il suo scopo non li richiede.

3.3. POI ARRIVA LA TV – E IL NEOSTANDARD

Nel 1954 aveva iniziato le trasmissioni televisive regolari la Rai, portando nelle case degli italiani non solo le voci di chi parlava italiano, ma anche le loro immagini, facendo vedere la mimica facciale, la gestualità, il modo di muovere la bocca e cosí via: per questo la tv segnò un passaggio epocale ed essenziale nell'alfabetizzazione del nostro paese. I canali nazionali si erano dati lo scopo non solo di intrattenere, ma anche di educare. Non a caso, uno dei programmi piú amati di quell'epoca fu « Non è mai troppo tardi » (sottotitolo: « Corso di istruzione popolare per adulti e analfabeti »), che insegnava a leggere e a scrivere a persone anziane che non avevano avuto modo di andare a scuola. A questo punto, nel momento in cui una popolazione di decine di milioni di persone si mette a usare quotidianamente la lingua nazionale, all'italiano inizi a succedere qualcosa: la lingua dell'uso comincia ad allontanarsi, abbastanza velocemente, dal canone insegnato - e imparato - a scuola. In particolare, avviene un fenomeno che i linguisti chiamano abbassamento dello standard : poiché le persone non sono tutte intellettuali e colte, ma la società dei parlanti comprende individui di ogni livello socioculturale, se tutti parlano una lingua usandola per ogni scopo possibile accade che la lingua vada verso una semplificazione. Al di là di quanto studiato a scuola, insomma, il parlante tenderà a non usare costrutti, parole, tempi e modi verbali, congiunzioni ecc. complessi e sentiti in qualche modo come poco utili o poco economici. Questo fenomeno diviene evidente tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Questo « nuovo italiano », che ormai non si può dire sbagliato, viene definito italiano neostandard e comprende fenomeni come la semplificazione del sistema verbale, la semplificazione del sistema pronominale, con lui, lei e loro come soggetto invece di egli, ella, essi, e le dislocazioni a destra e sinistra.

3.4. LA CHIAROVEGGENZA DI ITALO CALVINO

L'impressione che si ha oggi sia di grande indifferenza rispetto alla scrittura sorvegliata: soprattutto sui social, ma anche nei giornali, nei cartelloni pubblicitari e, di fatto, in tutti i contesti pubblici, si ha la sensazione che si scriva un po' come viene.

In molte lingue del mondo si nota una maggiore sciatteria nell'uso. Questo fa pensare che si tratti di una questione legata a un preciso fenomeno o cambiamento cognitivo: abbiamo troppa fretta per riuscire a comunicare «per bene»? Di sicuro, possiamo dire che non è «colpa dei social», i quali contengono esattamente ciò che scegliamo di metterci dentro. È proprio quell'italiano popolare, «dei semicolti», che risalta grazie ai social network: online scriviamo tutti, e scriviamo di piú. Scriviamo in maniera formale e informale a seconda delle situazioni, che in rete sono variegate quanto nella vita «reale». In molte situazioni scriviamo quasi come se stessimo parlando, anche se questo «parlato digitato» è in realtà qualcosa di completamente diverso dal parlato vero e proprio. Per quanto, al netto di tutto, ci possa essere la forte tentazione di dichiarare inarrestabile il declino della lingua italiana, e inevitabile la sua morte, va ricordato ancora una volta che gli unici responsabili della salute della nostra lingua siamo noi. Una lingua è viva finché qualcuno la parla.

4. IL LESSICO DELL’ITALIANO E COME SI ESPANDE

4.1. DIAMO UN PO’ DI NUMERI

Quante parole conosciamo, e perché? Quante sono in tutto le parole dell'italiano? La risposta è molto difficile da dare. Sappiamo il dizionario Gradit ne contiene circa 328000. Ma i dizionari non esauriscono tutte le parole dell'italiano perché sono dizionari dell'uso, ossia descrivono un preciso tipo di italiano: quello usato in questo momento storico. E piú plausibile stimare che l'italiano sia composto da un numero piú alto di parole, soprattutto se consideriamo quelle obsolete, ossia in disuso, quelle strettamente tecniche, quelle riconducibili originariamente a un dialetto e cosí via. Si dice che una lingua di cultura può constare di un numero di parole tra le 300000 e il milione. Una persona alla fine dei suoi studi superiori, quindi mediamente colta, conosce probabilmente tra le 15000 e le 30000 parole; un professionista del settore, come un linguista, arriva a conoscerne anche 100000. Questo vuol dire che ogni giorno sarà molto probabile incontrare parole a noi sconosciute. Quando si impiega la propria lingua madre, è facile rendersi conto che non esiste una corrispondenza biunivoca tra significante e significato, ossia non esiste una parola e una sola parola per ogni concetto (e non esiste uno e un solo concetto per ogni parola).  abbiamo piú parole che significano all'incirca la stessa cosa (i cosiddetti sinonimi  esistono perché di solito veicolano una sfumatura di significato diversa, oppure appartengono a registri diversi, oppure sono nati in momenti storici diversi, o derivano da lingue diverse)  abbiamo parole che hanno molti significati diversi, che a volte si chiarificano solo grazie al contesto in cui quella parola viene usata  esistono sequenze di lettere o suoni senza senso  esistono concetti (al momento) privi di una parola per definirli Come fare, allora, a scegliere la parola piú adatta a uno specifico ambito? C'è un unico modo: ragionando sul contesto in cui dobbiamo impiegare quella parola.

4.2. LE PAROLE NON SONO TUTTE UGUALI: LA STRATIFICAZIONE DEL LESSICO

Che succede se scegliamo la parola inadatta al contesto? Numerosi potenziali problemi: potremmo venire fraintesi, oppure offendere, o non farci capire, o fare la figura degli ignoranti. Le parole non sono tutte uguali e non si differenziano solo per sfumature di significato. Ci sono termini piú conosciuti e termini meno conosciuti, termini che appartengono a un tipo particolare di lessico e altri che si trovano solo nelle opere letterarie. Alcuni dizionari, come il Gradit, riportano una sigla di due lettere accanto a ogni lemma: sono le marche d'uso, una validissima guida per capire con che tipo di parola abbiamo a che fare.

4.3. CORRONO IN AIUTO LE MARCHE D’USO

Le marche d'uso nei dizionari classificano le parole con degli acronimi:

 FO  nucleo di poche parole appartenenti al lessico fondamentale dell'italiano; compongono il 9 0 per

cento dei nostri discorsi quotidiani e sono le parole che sentiamo dire e usiamo piú spesso:

 AU  di alto uso, costituiscono circa il 6 per cento dei nostri discorsi quotidiani; sono termini che

conosciamo bene, ma che per vari motivi usiamo solo in casi specifici

 AD  di alta disponibilità: sono quelle che conosciamo bene perché sono tutto sommato comuni, ma

raramente abbiamo bisogno di impiegarle. L'insieme di queste parole forma il « vocabolario di base » della nostra lingua

 CO  cioè comuni, sono quelle che una persona di cultura medio-alta conosce indipendentemente dal

suo mestiere o dalla sua specializzazione Altre marche d'uso che incontreremo nel dizionario sono piú specifiche

 RE  regionalismi, cioè termini appartenenti a un italiano regionale

 DI  dialettismi, ossia parole proprie di un dialetto, che per varie questioni storiche sono finite a essere

parte del lessico dell'italiano

 ES  esotismi, cioè parole straniere che sono entrate a far parte stabilmente della nostra lingua nel corso

della sua storia Abbiamo poi le marche che segnalano le parole appartenenti a uno specifico settore:  TS per i termini tecnico-specialistici  LE per i termini letterari Infine, il dizionario ci segnala anche le parole:  BU di basso uso  OB obsolete Ci sono poi tante parole che usiamo che non troveremo neanche nei vocabolari; il vocabolario, infatti, non certifica l'esistenza di una parola, ma l'ampiezza della sua diffusione.

4.4. E LE PAROLE “BRUTTE”?

Le parolacce sono registrate perché sono usate dalle persone, talvolta fin troppo. Per toglierle dal vocabolario, occorrerebbe che non venissero piú usate. Ma questo è quasi impossibile. I termini volgari, gli improperi e le bestemmie sono anche parte importante della nostra crescita ed evoluzione personale. Ogni lingua ha le sue bestemmie, il cui livello di gravità e grevità dipende da molti fattori culturali, religiosi e cosí via. Per insultare, non usiamo sempre e solo parole palesemente brutte, volgari o offensive, ma abbiamo la capacità di dare significati offensivi a termini di per sé neutri (es. finocchio, cagna). Non si può, per questo, bloccare l'insulto con un algoritmo, perché noi esseri umani siamo davvero infinitamente piú creativi di qualunque algoritmo.

4.5. PROVE TECNICHE DI NEOLOGISMI: UNA STORIA PETALOSA

È stato notato un aumentare dell'interesse generale (o, volendo, anche del fastidio) per la questione della neologia da quando accadde la « vicenda petaloso ». La storia di petaloso è ritenuta importante da diversi punti di vista:

  • Prima di tutto, ha segnato un vero e proprio cambio di passo nell'interesse degli italiani nei confronti della neologia. Certo, i neologismi hanno sempre dato fastidio: si pensi a quante barricate sono state alzate contro apericena; ma dall'aggettivo inventato da Matteo a oggi, le iniziative per votare le parole dell'anno e anche semplicemente i quesiti rispetto al funzionamento della neologia sono aumentati in maniera esponenziale
  • In secondo luogo, la vicenda petaloso è una vera e propria riprova dei meccanismi cognitivi della rete: la persistenza delle notizie false, la violenza verbale insensata e priva di pudore, il fatto che le critiche si basino quasi sempre su una conoscenza completamente distorta di quanto accaduto, l'improvvisarsi tutti linguisti A oggi questo aggettivo non è entrato nel vocabolario, semplicemente perché non viene mai usato in contesti «naturali», ma quasi solo in maniera meta: uso l'aggettivo petaloso per parlare di petaloso, e non come aggettivo per descrivere altro. Al momento, è registrato nella sezione Neologismi del Vocabolario Treccani in

E uno dei primi segni di cattiva salute di una lingua è la sua sempre minore capacità di descrivere con precisione il presente. E questo, a pensarci bene, succede quando una lingua smette di creare neologismi e si cristallizza, anzi, si pietrifica, senza piú muoversi. Non tutte le parole nuove finiscono per depositarsi nel vocabolario. I termini che non ce la fanno sono:

  • le parole usate per un tempo troppo breve
  • le parole usate in un contesto geografico troppo ristretto
  • le parole impiegate solo in un contesto molto specifico o espressioni di altissima specificità settoriale, andranno invece ricercati in un dizionario specialistico
  • le parole che fanno parte solo del nostro lessico familiare
  • le parole usate solo in modo metalinguistico, cioè impiegate soltanto quando si parla di quelle stesse parole, come abbiamo visto per petaloso

4.8. NELLO SPECIFICO: IL RUOLO DELL’INGLESE (SIGNORA MIA)

Ogni lingua contiene parole provenienti da altre lingue, e questa «contaminazione incrociata» è del tutto naturale. Normalmente, ciò dipende dagli scambi commerciali e culturali ai quali una nazione, e la sua lingua, sono esposti, e anche dalla provenienza di specifiche branche del sapere, che quando sono particolarmente importanti tendono a portarsi appresso anche la loro nomenclatura originaria. È una necessità oggettiva prendere parole dalle altre lingue, anche se non è una necessità farlo indiscriminatamente. Non a caso, come prima abbiamo parlato di prestiti di necessità , adesso occorre accennare ai prestiti di lusso : si tratta di termini stranieri che, in realtà, sarebbero evitabili perché esiste l'esatto corrispettivo italiano, per cui il termine straniero viene impiegato per motivi diversi dalla reale necessità (usati molto nel settore della moda e in quello del marketing). Parametri che, con un minimo di attenzione, impedirebbero di usare i forestierismi a caso:

  • conoscere con esattezza il significato del termine
  • straniero che si vuole usare;
  • saperlo scrivere correttamente;
  • saperlo anche pronunciare correttamente;
  • assicurarsi che l'interlocutore lo comprenda;
  • Attenzione ai falsi amici

4.9. DA QUESTIONE LINGUISTICA A SCONTRO SOCIOPOLITICO: I FEMMINILI PROFESSIONALI

I femminili professionali ancora poco in uso, sollevano piú di una perplessità. Benché non si tratti di veri neologismi, spesso sono trattati alla stregua di parole nuove, inventate di sana pianta. In italiano tutti i sostantivi hanno un genere grammaticale : o sono maschili o sono femminili. Non esiste il genere neutro. Ma abbiamo anche il genere semantico : quando la parola si riferisce ad animali o esseri umani, solitamente il genere della parola è coerente con quello dell'animale o dell'umano che denota. Abbiamo fondamentalmente quattro tipi di relazioni tra maschile e femminile:

  1. i nomi di genere fisso, in cui ai due generi corrispondono sostantivi con radici diverse, come maschio- femmina o bue-mucca;
  2. i nomi di genere comune, con una sola forma per maschile e femminile come il/ la docente, il/ la solista;
  3. i nomi di genere promiscuo, che sono di animali e hanno un'unica forma per maschile e femminile: l'antilope (non esiste *l'antilopo, ma occorre dire l'antilope maschio);
  4. i nomi di genere mobile, che formano il femminile tramite una serie di desinenze: gatto-gatta, professore-professoressa,lettore-lettrice, ecc. Nel caso dei femminili professionali, alcune coppie esistono da tempo (sarto-sarta, segretario-segretaria). In altri casi, soprattutto quelli di professioni e ruoli nei quali la presenza femminile non è stata fino a oggi abituale, i femminili non sono noti, o sono percepiti come «stranezze linguistiche», neologismi che per alcuni sono completamente sbagliati. Premesso che per il caso dei femminili non si ha nemmeno a che fare con veri neologismi, quanto piuttosto con forme previste dal nostro sistema linguistico, al semplice «problema» linguistico si sovrappone qui una questione sociale e anche politica. La questione sociale è collegata sia alla percezione della donna nella nostra società, sia alle diverse correnti di femminismo esistenti.

I femminili si sono stratificati nel tempo, sono numerosi e sono formati in maniere diverse: ad esempio abbiamo le coppie professore-professoressa, direttore-direttrice, infermiere-infermiera, o i nomi che finiscono in - a per entrambi e si differenziano al plurale, tipo astronauta-austronauti/e. Per le nuove formazioni, i linguisti consigliano, ove possibile, di scegliere il femminile a suffisso zero: ingegnera e non ingegneressa, ma anche sindaca e non sindachessa. Esiste una manciata di casi di nomi professionali al femminile anche per referenti di genere maschile: guardia, sentinella, vedetta. Anche qui, ci sono dietro ragioni storiche. Sono però pochi casi: il sistema non è, appunto, perfettamente simmetrico.

5. POTERE ALLE PAROLE

5.1. POTERE ALLE PAROLE, MA NON QUELLE ATTRIBUITE A CASO

Le parole sono potenti, potentissime. Ma non dobbiamo metterle in bocca a chi non le ha mai pronunciate. Parlare e vivere (online e offline) in maniera intelligente è anche questo: controllare le fonti, verificare ciò che stiamo per scrivere e condividere.

5.2. A MO’ DI RIEPILOGO CON ALCUNI PARERI EMINENTI

È arrivato il momento di riepilogare le questioni salienti viste fino a ora:

  • la facoltà del linguaggio è centrale per la nostra essenza di umani;
  • parlare una lingua e studiare una lingua sono due cose differenti;
  • il concetto di «errore linguistico» è piú sociologico che linguistico in senso stretto (e ha conseguenze piú sociologiche che linguistiche);
  • l'italiano ha una storia molto complessa e conoscerla è utile per comprendere parte delle criticità del presente;
  • l'inglese non è cosí tremendo, se si sa come e quando usarlo;
  • i neologismi sono innocui, di per sé, perché non sostituiscono per forza le parole che già abbiamo;
  • anche in ambito linguistico possiamo avere pregiudizi e reazioni di pancia  alcuni pregiudizi ci aiutano a decodificare o a vivere correttamente ciò che ci aspetta. Il pregiudizio però non deve diventare un automatismo - come invece succede spesso - o qualcosa di soverchiante. Classici pregiudizi linguistici sono pensare che i giovani d'oggi siano piú incolti dei giovani di una volta. Piú che difendere la nostra lingua, dobbiamo stimarla, portarle rispetto, usarla con l'attenzione con cui si impiegano strumenti che, quando mal usati, possono ferire, anche mortalmente. Ogni lingua, è di chi la parla; di conseguenza, siamo tutti responsabili del suo stato di salute.

5.3. CHE COSA POSSO FARE IO?

Dobbiamo tutti diventare dei veri e propri contadini della lingua. Se tutti facessero lo sforzo di usare nella maniera migliore possibile le proprie competenze linguistiche, lo scenario comunicativo cambierebbe decisamente. Nell'ambito della sociologia esiste la cosiddetta teoria della finestra rotta. Semplificando molto, afferma che un atto vandalico viene perpetrato piú facilmente se l'oggetto o il luogo interessati sono già alquanto compromessi. Questa teoria a livello sociologico è stata ampiamente sconfessata; tuttavia, potremmo pensare a una sua applicazione in campo linguistico. La comunicazione che funziona davvero è quella che trova modo di far convivere in maniera armonica forma e contenuto. Insomma, al di là del fatto che siamo circondati da esempi negativi, da menefreghismo linguistico e comunicativo, ognuno di noi può di fatto ribellarsi a questa «dittatura del brutto» e diventare padrone delle proprie parole.

5.4. DECORO, MA NON BON TON

Potremmo definire la questione ricorrendo all'espressione decoro linguistico. Il decoro linguistico implica cercare di comunicare sempre al meglio delle proprie competenze (quindi non «bene» in senso assoluto, ma bene tenendo conto di quello a cui ognuno di noi può arrivare), valutando il contesto in cui ci si trova e le persone che si hanno di fronte. E, considerando queste ultime, la