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Typology: Cheat Sheet
Uploaded on 12/19/2024
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Vari episodi di piccoli disagi quotidiani sono la dimostrazione delle difficoltà legate all'uso degli strumenti linguistici «in ingresso» (mancata comprensione di un messaggio) o «in uscita» (problemi a mettere in parole ciò che vorremmo esprimere). Tutti (piú o meno) sappiamo leggere e scrivere; ma non sempre riusciamo a farlo bene, o nella maniera migliore, e talvolta ce ne rendiamo conto nel peggiore dei modi. Poiché impariamo a leggere e scrivere molto precocemente nella nostra vita, succede che finiamo per dare questa competenza un po' per scontata. Rispetto a competenze piú pratiche, quella linguistica potrebbe sembrare meno rilevante. Al contrario, nella società di oggi, definita non a caso società della comunicazione, la vita di ognuno di noi è piena di situazioni che richiedono di usare la lingua, e di usarla possibilmente bene. Quando non lo facciamo, rischiamo conseguenze spiacevoli di ogni sorta. Possiamo venire disprezzati, stigmatizzati come persone poco acculturate, possiamo perdere tempo, diventare vittime di un fraintendimento, non riuscire a dire la nostra su una questione per noi fondamentale. Abbiamo però la possibilità di perfezionare la conoscenza della lingua e dei suoi meccanismi diventando, in questo modo, persone piú forti, piú potenti, meno schiave delle sollecitazioni e delle decisioni altrui e, soprattutto, capaci di arrivare piú lontano. La competenza, in fondo, ci viene concessa praticamente per diritto di nascita; tutto sta nell'affinarla, o continuare a tenerla in esercizio senza impigrirci troppo, senza darla per scontata. La capacità linguistica è come un muscolo: va allenata. Padroneggiare gli strumenti linguistici non vuol dire «parlare come un libro stampato» sempre e comunque; vuol dire essere capaci di scegliere, in ogni situazione, il registro linguistico piú consono a essa. La nostra educazione linguistica è piena di falsi miti. Molte persone pensano che parlare dialetto sia disdicevole, o che usare i neologismi comporti dimenticarsi delle care, vecchie parole già esistenti. C'è chi afferma che se iniziamo a parlare inglese, finiremo per scordarci l'italiano, altri invece sono convinti al contrario che dobbiamo soppiantare l'italiano con l'inglese per restare «al passo con i tempi»; c'è poi chi ritiene che l'italiano venga corrotto da qualsiasi parola che acquisiamo da lingue diverse. Altri ancora sono convintissimi che esista una e una sola lingua «corretta», una norma immutabile nel tempo e nello spazio, e che ogni cambiamento non possa che essere negativo. Infine, per alcuni, preservare la lingua, possibilmente uguale a sé stessa (sí, con l'accento; poi vedremo perché), perfetta e pura, equivale a salvaguardare la nostra cultura e la nostra italianità.
Perché parliamo? Perché non ci limitiamo a emettere una gamma di grugniti, come fanno gli animali? Il linguaggio ha profondissime basi biologiche. Potremmo affermare che sia nato dalla necessità, sentita come fondamentale dai nostri progenitori, di comunicare in maniera piú efficace le esperienze. Dunque, noi parliamo perché è il modo piú economico, perfezionato nel corso di decine di migliaia di anni di evoluzione, per trasmetterci le informazioni. In particolare, potremmo dire che la lingua, qualsiasi lingua, svolga tre funzioni principali:
La lingua è un codice. Come tutti i codici, occorre che sia condiviso da una comunità di parlanti: in altre parole, i membri della comunità devono essere d'accordo sui nomi dati alle cose. Se una parola vuol dire una certa cosa all'interno di una certa lingua, l'accoppiata tra significante e significato , come diceva il grande linguista Saussure, è sí, arbitraria, ma una volta decisa diventa tendenzialmente Stabile. Esempio: non c'è un vero motivo per cui la ciliegia si debba chiamare ciliegia e non, per esempio, litchi. Ma dal momento che la ciliegia è stata definita come «il frutto del ciliegio, costituito da una piccola drupa succosa di colore variabile dal rosa al rosso intenso», sarebbe sbagliato chiamarla litchi o anche Ermenegilda: violeremmo quel contratto silenzioso tra noi, parlanti dell'italiano, in base al quale siamo tutti d'accordo di chiamare ciliegia la ciliegia. Per finire il discorso sulla lingua, ricordiamo anche che si tratta di un codice condiviso che per funzionare ha bisogno di specifiche regole che usiamo per comunicare. La comunicazione, quando funziona, ha una caratteristica precipua: nessuno dei partecipanti è passivo. Anche chi assiste, chi ascolta, e ha un ruolo apparentemente meno rilevante, è centrale al processo. Esempio: se mi tappo le orecchie quando una persona mi sta parlando, io mi nego alla comunicazione, per quanto l'altro possa impegnarsi. Nel nostro comunicare, creiamo testi. La parola deriva dal latino textus , alla base anche del termine tessuto. Il testo, come il tessuto, è qualcosa che si crea intrecciando i fili del nostro discorso. Possiamo definire testo qualsiasi prodotto della nostra comunicazione, sia scritta sia parlata : un discorso è un testo, una lezione di scuola è un testo, un libro è un testo, ma sono testi anche una lista della spesa, uno scontrino, un cartello stradale o una foto pubblicata su Instagram. Un testo, solitamente, è tale perché ha dei limiti riconoscibili : una lezione ha un inizio e una fine, una fotografia ha dei bordi, un libro ha la copertina.
Di per sé, la conoscenza linguistica non ha confini: teoricamente il nostro cervello può conoscere un numero illimitato di lingue. Per lunghi decenni, prima dell'esistenza di Tac e risonanze magnetiche, si cercò di capire come funzionasse il cervello soprattutto da osservazioni indirette: per esempio, studiando i «bambini selvaggi», ossia bambini che, per accidenti vari, non avevano avuto contatti con altri esseri umani per i primi anni della loro vita. Ebbene, questi bambini, reintrodotti tardivamente «in società», non riuscivano a imparare nessuna lingua come lingua madre, cioè con quella profondità e spontaneità che implica la conoscenza della lingua che sentiamo parlare intorno a noi sin dai primissimi istanti della nostra esistenza. Queste osservazioni, e tanti studi successivi, ci hanno fatto supporre l'esistenza di una parte innata del linguaggio che ci portiamo dentro sin da prima della nascita , e che ci permette, se esposti ai giusti stimoli, di imparare una lingua madre (o due, o tre, o n): quella in cui vivremo immersi nella decade iniziale della nostra vita. Dopo la chiusura del periodo-finestra, invece, potremo continuare a imparare altre lingue, ma mai al livello della o delle lingue madri. Sappiamo anche che esistono delle parti del cervello adibite specificamente alla conoscenza linguistica : l'area di Broca e l'area di Wernicke. Studiando il comportamento di pazienti che avevano subito una specifica menomazione cerebrale, magari per colpa di una malattia o di un incidente, gli studiosi da cui prendono il nome le aree cerebrali si accorsero che, a seconda di quale fosse l'area lesionata, si perdeva un tipo di funzione linguistica:
E tutto questo è assolutamente giusto; tuttavia, per non soccombere alla relatività totale, c'è anche bisogno di un po' di norma, nel nostro parlare. Da una parte, abbiamo bisogno di assimilare delle regole per imparare a usare meglio la nostra lingua; dall'altra, non si può ignorare la pressione che l'uso esercita sulla norma, provocando a lungo andare cambiamenti in essa. E questo ci porta al terzo punto della definizione citata dalla Treccani: “Un insieme di regole, che riguardano tutti i livelli della lingua (fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità), accettato da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storico-culturale ". - Treccani
Dovendo sintetizzare quanto detto finora, potremmo dire questo: la norma alla fine corrisponde a ciò che viene percepito come giusto in uno specifico momento storico e sociale.
Il desiderio di trovare qualcuno che abbia l'ultima parola è molto umano. Ma c'è sempre un problema di autorevolezza, quando si parla di questioni linguistiche. Molto spesso, questa autorità massima viene identificata con l'Accademia della Crusca, spesso accusata di essere troppo lassista, troppo descrittivista invece che prescrittivista. Se la lingua è fatta dall'uso, se gli utenti, tutti gli utenti, hanno un ruolo attivo nella definizione della norma, chi è che ha l'ultima parola? La resistenza dell'italiano ad avere dei padroni ha salde radici storiche e culturali: uno dei pochi momenti in cui si è tentato di imporre delle regole dall'alto è stato durante il fascismo, quando si pretendeva di praticare l'autarchia anche a livello della lingua, bandendo tutti i termini stranieri e sostituendoli con parole italiane. L'autarchia linguistica, al di là di quanto è rimasto, ha lasciato un nervo scoperto negli italiani: l'idea che ogni imposizione linguistica dall'alto sia da evitare. E quindi la Crusca osserva, studia, registra, consiglia, ma non impone. Una delle principali caratteristiche del linguista è proprio quella di dare giudizi con cautela, di preferire la comprensione del fenomeno, la riflessione su di esso. Però non sono loro a decidere, a sentenziare sulla lingua. Quello, alla fine di tutto, lo fa la massa dei parlanti.
Anche se cosí tanto dipende dai parlanti, la scuola ha un ruolo fondamentale, che è quello di trasmettere l'intelaiatura delle competenze linguistiche. È sicuramente vero che è difficile, per un ente tanto complesso, stare al passo con i tempi. Molti si chiedono a cosa serva ripetere le cose, o imparare le poesie a memoria si parte da quelle capacità di base per arrivare a una competenza linguistica superiore. La scuola deve addestrare, insomma, a conoscere la norma, perché solo conoscendola la si può trasgredire. Chi, invece, scrive come viene, senza conoscere la norma o fregandosene della sua esistenza, non è trasgressivo, è solo ignorante o menefreghista.
I linguisti stessi tendono a definire l'errore uscendo dall'ambito strettamente linguistico: l'errore è quella cosa che devia dalla norma e che provoca riprovazione sociale. In altre parole, non è un torto commesso alla dea della lingua o alla professoressa di lettere, ma è quello che ci fa fare una figuraccia ed è mutevole. L'indicazione migliore potrebbe dunque essere quella di parlare e scrivere al meglio delle proprie possibilità, sia per una questione di contegno linguistico sia come gentilezza nei confronti degli altri; c'è però poi una seconda questione importante che riguarda l'atteggiamento da tenere nei confronti dei comportamenti linguistici altrui. Ci sono persone che davanti a un *perché o una domanda di lingua posta troppo ingenuamente si indignano come se gli fosse stata letteralmente offesa la madre. Sono chiamati Nazisti della grammatica: la caratteristica classica del nazista della grammatica è quella di essere completamente inflessibile davanti agli svarioni linguistici altrui, senza alcun tentennamento. Il grammarnazi è solitamente una persona mediamente colta o colta sopra la media, che però si è in qualche modo fossilizzata su una posizione intransigente e soprattutto di disprezzo nei confronti di chi, per un motivo o per l'altro, non usa bene la propria lingua madre; e questo disprezzo lo esprime solitamente in maniera odiosa e giudicante.
In campo linguistico accade spesso che, quando abbiamo a che fare con nozioni imparate a scuola, tendiamo a mostrarci indisponibili a cambiarle, a prendere atto che magari quelle cose di cui eravamo cosí certi sono obsolete, superate. Ogni cambiamento richiede da parte nostra un adattamento, e gli adattamenti non sono indolori. Vediamo qualche esempio di fissazione linguistica molto diffusa: 1) «A me mi» non si dice. Pur essendo questo un vero anatema scolastico, sarebbe piú preciso affermare che a me mi non si scrive in un contesto sorvegliato, alto, come potrebbero essere una lettera di lavoro o un curriculum vitae, ma nulla vieta di usarlo nella nostra comunicazione informale, quotidiana 2) Il congiuntivo sta morendo. Anche questo è vero solo in parte. Il fatto che sbagliare un congiuntivo provochi un’irritazione nelle persone significa che la riprovazione sociale è ancora sufficientemente alta; talmente alta che molte persone tendono a diventare ipersensibili riguardo alla sequenza se + condizionale anche quando questa è usata correttamente, come nelle insidiosissime interrogative indirette , quelle come mi domando se avrei la forza di finire questo compito/ se sarei in grado di fare questa operazione. Se invece qualcuno fosse preoccupato o urtato da frasi come se lo sapevo non venivo al posto di se lo avessi saputo non sarei venuto , occorre rassicurare tutti: anche questa soluzione è corretta in contesti di medio-bassa formalità (per esempio, in uno scambio informale su WhatsApp). Insomma, il congiuntivo è molto meno morto di quanto siamo portati a pensare. 3) «Famigliare» e «obbiettivo» sono sbagliati, occorre scrivere «familiare» e «obiettivo». Una innecessaria semplificazione della realtà dei fatti: entrambe le forme sono corrette, sia in un casosia nell'altro. Semplicemente, familiare e obiettivo sono le forme piú vicine all'etimo latino, mentre le altre due sono piú popolari, ma non errate.
parte delle persone, che solo molto tardivamente, o per caso, scoprono di avere sbagliato pronuncia per tutta la vita. Una situazione tipica è quella della ritrazione dell'accento su moltissime parole.
Per riassumere, la lingua è lontana dall'essere monolitica; cosí come monolitica non è la norma, che è a sua volta un sistema complesso e che, a ben vedere, è piú simile a un insieme di principi etici che non di teorie strettamente scientifiche. Non dobbiamo pensare in termini di giusto e sbagliato, ma di piú giusto e piú sbagliato per una certa situazione rispetto a un'altra.
3. IL GRANDE MISTERO DELL’ITALIANO
Ai discorsi troppo seri e troppo grammarnazi dell'Accademia Fiorentina contrapponevano le cruscate, discorsi leggeri e giocosi. La scelta di denominarsi come la parte piú povera del chicco di grano, le «bucce», sottenda a una precisa volontà dei fondatori: ricordare che per un linguista non esiste nulla che non sia degno di venire studiato.
La specifica varietà di dialetto che Bembo sceglie come base per la lingua nazionale viene «promossa a lingua» per motivi, di fatto, piú socioculturali che linguistici. Gli altri dialetti rimangono tali perché non vengono destinati, quasi a tavolino, a diventare la lingua nazionale. Ma qualsiasi dialetto italiano non ha nulla da invidiare all'italiano stesso come complessità: quelli che oggi chiamiamo dialetti non sono varietà «figlie» dell'italiano, ma «sorelle» di quella che ha raggiunto uno status piú alto. La distinzione tra lingua e dialetto si basa su fattori esterni al sistema linguistico, infatti, la differenza primaria tra lingua nazionale e dialetti sta nelle funzioni alle quali adempiono:
Nel 1954 aveva iniziato le trasmissioni televisive regolari la Rai, portando nelle case degli italiani non solo le voci di chi parlava italiano, ma anche le loro immagini, facendo vedere la mimica facciale, la gestualità, il modo di muovere la bocca e cosí via: per questo la tv segnò un passaggio epocale ed essenziale nell'alfabetizzazione del nostro paese. I canali nazionali si erano dati lo scopo non solo di intrattenere, ma anche di educare. Non a caso, uno dei programmi piú amati di quell'epoca fu « Non è mai troppo tardi » (sottotitolo: « Corso di istruzione popolare per adulti e analfabeti »), che insegnava a leggere e a scrivere a persone anziane che non avevano avuto modo di andare a scuola. A questo punto, nel momento in cui una popolazione di decine di milioni di persone si mette a usare quotidianamente la lingua nazionale, all'italiano inizi a succedere qualcosa: la lingua dell'uso comincia ad allontanarsi, abbastanza velocemente, dal canone insegnato - e imparato - a scuola. In particolare, avviene un fenomeno che i linguisti chiamano abbassamento dello standard : poiché le persone non sono tutte intellettuali e colte, ma la società dei parlanti comprende individui di ogni livello socioculturale, se tutti parlano una lingua usandola per ogni scopo possibile accade che la lingua vada verso una semplificazione. Al di là di quanto studiato a scuola, insomma, il parlante tenderà a non usare costrutti, parole, tempi e modi verbali, congiunzioni ecc. complessi e sentiti in qualche modo come poco utili o poco economici. Questo fenomeno diviene evidente tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Questo « nuovo italiano », che ormai non si può dire sbagliato, viene definito italiano neostandard e comprende fenomeni come la semplificazione del sistema verbale, la semplificazione del sistema pronominale, con lui, lei e loro come soggetto invece di egli, ella, essi, e le dislocazioni a destra e sinistra.
L'impressione che si ha oggi sia di grande indifferenza rispetto alla scrittura sorvegliata: soprattutto sui social, ma anche nei giornali, nei cartelloni pubblicitari e, di fatto, in tutti i contesti pubblici, si ha la sensazione che si scriva un po' come viene.
In molte lingue del mondo si nota una maggiore sciatteria nell'uso. Questo fa pensare che si tratti di una questione legata a un preciso fenomeno o cambiamento cognitivo: abbiamo troppa fretta per riuscire a comunicare «per bene»? Di sicuro, possiamo dire che non è «colpa dei social», i quali contengono esattamente ciò che scegliamo di metterci dentro. È proprio quell'italiano popolare, «dei semicolti», che risalta grazie ai social network: online scriviamo tutti, e scriviamo di piú. Scriviamo in maniera formale e informale a seconda delle situazioni, che in rete sono variegate quanto nella vita «reale». In molte situazioni scriviamo quasi come se stessimo parlando, anche se questo «parlato digitato» è in realtà qualcosa di completamente diverso dal parlato vero e proprio. Per quanto, al netto di tutto, ci possa essere la forte tentazione di dichiarare inarrestabile il declino della lingua italiana, e inevitabile la sua morte, va ricordato ancora una volta che gli unici responsabili della salute della nostra lingua siamo noi. Una lingua è viva finché qualcuno la parla.
4. IL LESSICO DELL’ITALIANO E COME SI ESPANDE
Quante parole conosciamo, e perché? Quante sono in tutto le parole dell'italiano? La risposta è molto difficile da dare. Sappiamo il dizionario Gradit ne contiene circa 328000. Ma i dizionari non esauriscono tutte le parole dell'italiano perché sono dizionari dell'uso, ossia descrivono un preciso tipo di italiano: quello usato in questo momento storico. E piú plausibile stimare che l'italiano sia composto da un numero piú alto di parole, soprattutto se consideriamo quelle obsolete, ossia in disuso, quelle strettamente tecniche, quelle riconducibili originariamente a un dialetto e cosí via. Si dice che una lingua di cultura può constare di un numero di parole tra le 300000 e il milione. Una persona alla fine dei suoi studi superiori, quindi mediamente colta, conosce probabilmente tra le 15000 e le 30000 parole; un professionista del settore, come un linguista, arriva a conoscerne anche 100000. Questo vuol dire che ogni giorno sarà molto probabile incontrare parole a noi sconosciute. Quando si impiega la propria lingua madre, è facile rendersi conto che non esiste una corrispondenza biunivoca tra significante e significato, ossia non esiste una parola e una sola parola per ogni concetto (e non esiste uno e un solo concetto per ogni parola). abbiamo piú parole che significano all'incirca la stessa cosa (i cosiddetti sinonimi esistono perché di solito veicolano una sfumatura di significato diversa, oppure appartengono a registri diversi, oppure sono nati in momenti storici diversi, o derivano da lingue diverse) abbiamo parole che hanno molti significati diversi, che a volte si chiarificano solo grazie al contesto in cui quella parola viene usata esistono sequenze di lettere o suoni senza senso esistono concetti (al momento) privi di una parola per definirli Come fare, allora, a scegliere la parola piú adatta a uno specifico ambito? C'è un unico modo: ragionando sul contesto in cui dobbiamo impiegare quella parola.
Che succede se scegliamo la parola inadatta al contesto? Numerosi potenziali problemi: potremmo venire fraintesi, oppure offendere, o non farci capire, o fare la figura degli ignoranti. Le parole non sono tutte uguali e non si differenziano solo per sfumature di significato. Ci sono termini piú conosciuti e termini meno conosciuti, termini che appartengono a un tipo particolare di lessico e altri che si trovano solo nelle opere letterarie. Alcuni dizionari, come il Gradit, riportano una sigla di due lettere accanto a ogni lemma: sono le marche d'uso, una validissima guida per capire con che tipo di parola abbiamo a che fare.
Le marche d'uso nei dizionari classificano le parole con degli acronimi:
cento dei nostri discorsi quotidiani e sono le parole che sentiamo dire e usiamo piú spesso:
conosciamo bene, ma che per vari motivi usiamo solo in casi specifici
raramente abbiamo bisogno di impiegarle. L'insieme di queste parole forma il « vocabolario di base » della nostra lingua
suo mestiere o dalla sua specializzazione Altre marche d'uso che incontreremo nel dizionario sono piú specifiche
parte del lessico dell'italiano
della sua storia Abbiamo poi le marche che segnalano le parole appartenenti a uno specifico settore: TS per i termini tecnico-specialistici LE per i termini letterari Infine, il dizionario ci segnala anche le parole: BU di basso uso OB obsolete Ci sono poi tante parole che usiamo che non troveremo neanche nei vocabolari; il vocabolario, infatti, non certifica l'esistenza di una parola, ma l'ampiezza della sua diffusione.
Le parolacce sono registrate perché sono usate dalle persone, talvolta fin troppo. Per toglierle dal vocabolario, occorrerebbe che non venissero piú usate. Ma questo è quasi impossibile. I termini volgari, gli improperi e le bestemmie sono anche parte importante della nostra crescita ed evoluzione personale. Ogni lingua ha le sue bestemmie, il cui livello di gravità e grevità dipende da molti fattori culturali, religiosi e cosí via. Per insultare, non usiamo sempre e solo parole palesemente brutte, volgari o offensive, ma abbiamo la capacità di dare significati offensivi a termini di per sé neutri (es. finocchio, cagna). Non si può, per questo, bloccare l'insulto con un algoritmo, perché noi esseri umani siamo davvero infinitamente piú creativi di qualunque algoritmo.
È stato notato un aumentare dell'interesse generale (o, volendo, anche del fastidio) per la questione della neologia da quando accadde la « vicenda petaloso ». La storia di petaloso è ritenuta importante da diversi punti di vista:
E uno dei primi segni di cattiva salute di una lingua è la sua sempre minore capacità di descrivere con precisione il presente. E questo, a pensarci bene, succede quando una lingua smette di creare neologismi e si cristallizza, anzi, si pietrifica, senza piú muoversi. Non tutte le parole nuove finiscono per depositarsi nel vocabolario. I termini che non ce la fanno sono:
Ogni lingua contiene parole provenienti da altre lingue, e questa «contaminazione incrociata» è del tutto naturale. Normalmente, ciò dipende dagli scambi commerciali e culturali ai quali una nazione, e la sua lingua, sono esposti, e anche dalla provenienza di specifiche branche del sapere, che quando sono particolarmente importanti tendono a portarsi appresso anche la loro nomenclatura originaria. È una necessità oggettiva prendere parole dalle altre lingue, anche se non è una necessità farlo indiscriminatamente. Non a caso, come prima abbiamo parlato di prestiti di necessità , adesso occorre accennare ai prestiti di lusso : si tratta di termini stranieri che, in realtà, sarebbero evitabili perché esiste l'esatto corrispettivo italiano, per cui il termine straniero viene impiegato per motivi diversi dalla reale necessità (usati molto nel settore della moda e in quello del marketing). Parametri che, con un minimo di attenzione, impedirebbero di usare i forestierismi a caso:
I femminili professionali ancora poco in uso, sollevano piú di una perplessità. Benché non si tratti di veri neologismi, spesso sono trattati alla stregua di parole nuove, inventate di sana pianta. In italiano tutti i sostantivi hanno un genere grammaticale : o sono maschili o sono femminili. Non esiste il genere neutro. Ma abbiamo anche il genere semantico : quando la parola si riferisce ad animali o esseri umani, solitamente il genere della parola è coerente con quello dell'animale o dell'umano che denota. Abbiamo fondamentalmente quattro tipi di relazioni tra maschile e femminile:
I femminili si sono stratificati nel tempo, sono numerosi e sono formati in maniere diverse: ad esempio abbiamo le coppie professore-professoressa, direttore-direttrice, infermiere-infermiera, o i nomi che finiscono in - a per entrambi e si differenziano al plurale, tipo astronauta-austronauti/e. Per le nuove formazioni, i linguisti consigliano, ove possibile, di scegliere il femminile a suffisso zero: ingegnera e non ingegneressa, ma anche sindaca e non sindachessa. Esiste una manciata di casi di nomi professionali al femminile anche per referenti di genere maschile: guardia, sentinella, vedetta. Anche qui, ci sono dietro ragioni storiche. Sono però pochi casi: il sistema non è, appunto, perfettamente simmetrico.
5. POTERE ALLE PAROLE
Le parole sono potenti, potentissime. Ma non dobbiamo metterle in bocca a chi non le ha mai pronunciate. Parlare e vivere (online e offline) in maniera intelligente è anche questo: controllare le fonti, verificare ciò che stiamo per scrivere e condividere.
È arrivato il momento di riepilogare le questioni salienti viste fino a ora:
Dobbiamo tutti diventare dei veri e propri contadini della lingua. Se tutti facessero lo sforzo di usare nella maniera migliore possibile le proprie competenze linguistiche, lo scenario comunicativo cambierebbe decisamente. Nell'ambito della sociologia esiste la cosiddetta teoria della finestra rotta. Semplificando molto, afferma che un atto vandalico viene perpetrato piú facilmente se l'oggetto o il luogo interessati sono già alquanto compromessi. Questa teoria a livello sociologico è stata ampiamente sconfessata; tuttavia, potremmo pensare a una sua applicazione in campo linguistico. La comunicazione che funziona davvero è quella che trova modo di far convivere in maniera armonica forma e contenuto. Insomma, al di là del fatto che siamo circondati da esempi negativi, da menefreghismo linguistico e comunicativo, ognuno di noi può di fatto ribellarsi a questa «dittatura del brutto» e diventare padrone delle proprie parole.
Potremmo definire la questione ricorrendo all'espressione decoro linguistico. Il decoro linguistico implica cercare di comunicare sempre al meglio delle proprie competenze (quindi non «bene» in senso assoluto, ma bene tenendo conto di quello a cui ognuno di noi può arrivare), valutando il contesto in cui ci si trova e le persone che si hanno di fronte. E, considerando queste ultime, la