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Il pessimismo storico di giacomo leopardi e alessandro manzoni, confrontando le loro visioni del mondo e le loro opere. Si esamina il pensiero di leopardi, in particolare la sua prima fase, caratterizzata da un pessimismo storico e da una poesia sentimentale che cerca di ristabilire il rapporto con la natura. Si analizza anche il pensiero di manzoni, con particolare attenzione al suo pessimismo storico e alla sua visione dei grandi personaggi della storia come oppressori. Un'analisi approfondita delle opere di entrambi gli autori, evidenziando le loro differenze e le loro somiglianze.
Typology: Lecture notes
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Il Romanticismo italiano è a sé, tanto che qualche critico si domanda se sia mai esistito. Ha caratteristiche, infatti che lo separano molto dal resto dei movimenti romantici europei. Il Romanticismo europeo inizia circa nel 1799, in Germania ed Inghilterra, quando il termine tedesco Romantik smette di essere dispregiativo e dedicato a racconti bizzarri e irrazionali, cominciando invece ad indicare una sensibilità nuova e moderna. In Italia, invece, il 1816 è la data in cui inizia il dibattito romantico, quando compare sulla rivista La Biblioteca Italiana un articolo di Madame De Staël, figlia di un ministro francese prenapoleonico, naturalizzata italiana. Viveva a Milano, come animatrice di uno dei salotti letterari più conosciuti. L’articolo invita la cultura italiana a tradurre le opere che i romantici stavano producendo in Europa; l’articolo, infatti, si intitolava “Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni”. Questo articolo solleva una polemica accesissima, che arriva anche all’aggressione verbale dell’autrice, portando ad un’immediata scissione tra classici e romantici. La cultura italiana nel tempo costituiva un continuo rimando a ciò che era stato prodotto in precedenza; però, sentirsi dire che la cultura d’eccellenza derivante dal mondo classico avrebbe dovuto tradurre le produzioni europee era inimmaginabile. Ciò che Madame De Staël intendeva era che bisognava aprirsi alla cultura europea, anche tramite uno studio traduttivo. La polemica tra classici e romantici si protrarrà comunque ancora per molto nel tempo. L’altra differenza con il Romanticismo europeo è che quello italiano possiede una caratteristica unica: non è infatti in chiave antilluminista. L’illuminismo era la cultura che per eccellenza che derivava dalla Francia, paese che aveva dato spazio a Napoleone, visto molto male da Inghilterra e in Germania in quel momento. Invece, in Italia, benché alcuni aspetti illuministi vengano superati, il Romanticismo italiano ha come fulcro Milano, la cui scuola fa capo a Manzoni. Milano è anche geograficamente vicino all’Europa, ed è soprattutto il luogo in cui si era realizzata l’esperienza di un illuminismo molto aperto e tollerante dell’Europa. Manzoni crescerà infatti educato ai principi illuministi di famiglia, essendo nipote di Cesare Beccaria. Il ruolo dell’intellettuale romantico non sarà quindi quello di chiudersi nella propria turres aburnea , bensì quello di farsi “agitatore d’idee”. È un’idea tipica dell’Illuminismo; l’intellettuale che crea e si mette di fronte ad un’opinione pubblica. Non è un caso che dopo l’articolo di Madame De Staël fioriscono una serie di opuscoli e riviste che hanno proprio lo scopo di divulgare le idee romantiche. I manifesti romantici erano molto importanti, primo fra tutti la “Lettera semiseria di Crisostomo al suo figliolo” di Giovanni Berchet, in cui vengono dette cose molto specifiche. La lettera è descritta come “semiseria” per sfuggire alla censura austriaca, in pieno clima di Restaurazione, e l’autore si finge un pedagogo classicista, che enuncia la teoria romantica per poi sconsigliarla. Il suo è un manifesto romantico; uno degli assunti più importante è che la vera poesia è quella popolare, il cui pubblico privilegiato è proprio la borghesia. Non sfugge però agli austriaci, che si rendono conto che con la scusa di parlare di letteratura fanno politica, che costituiscono quella generazione che poi porterà all’unità d’Italia. Un esempio è un documento, Il Conciliatore, che vuole conciliare scienza e letteratura, Illuminismo e Romanticismo, soppresso poi dopo appena un anno. Nell’epoca della Restaurazione, si passa ad una mentalità completamente diversa, attivata dal precedente napoleonico, come ad esempio la concezione di nazione, che elimina il cosmopolitismo ma crea un’identità di popolo e di nazione. È questo il periodo di formazione e unificazione di nazioni, come l’Italia e la Germania.
La filosofia idealista ha una grande importanza nell’immaginario e negli ideali romantici; lo storicismo hegeliano rappresenta per esempio una fiducia nella storia, un passaggio pratico dato dalla dialettica. Il genere per eccellenza del Romanticismo diventa la poesia, almeno in Europa; in Italia assistiamo ad un doppio aspetto, dove afÏancato all’importanza della poesia e la lirica (o il canto) troviamo il romanzo storico, che spesso ha un obiettivo istruttivo, un insegnamento mirato alla borghesia. Soprattutto i “Promessi Sposi” costituiscono il primo testo di un genere letterario che in Italia non c’era, e oltre ad essere in un italiano unificante rappresentano una narrazione volta a costituire una sorta di percorso, che per Renzo è di formazione, ma che deve anche essere di esempio. La storia deve costituire un esempio educativo nel confronto del pubblico, quindi la borghesia, il terzo stato. 23.09. ALESSANDRO MANZONI È colui che ha dato il via alla narrativa moderna, insieme a Verga, essendo l’autore del primo romanzo italiano, in italiano moderno. Verga, al contrario, introduce dei cambiamenti significativi nel contenuto. Cenni biografici Nasce a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria; è quindi nipote di Cesare Beccaria, autore del Trattato dei diritti e delle pene, ciò che fece abolire la pena di morte in Italia. Appartiene ad una famiglia di comprovata tradizione illuminista. È anche figlio naturale dell’ultimo dei fratelli Verne, nonostante il padre adottivo sia Pietro Manzoni. La madre lo fa formare presso dei collegi in Svizzera, dove c’era una formazione di stampo classicista. Rientrando a Milano, Manzoni mostra un’insofferenza notevole per l’ambiente repressivo della casa paterna. Nel 1805 Manzoni raggiunge la madre Giulia a Parigi, separatasi da Pietro Manzoni, andando a convivere con il Conte Carlo Imbonati, un aristocratico progressista morto proprio in quell’anno. Per qualche anno, Manzoni soggiorna a Parigi, e viene influenzato dall’apporto della cultura francese e degli idéologues , intellettuali di stampo liberale. Colui che più influenza l’autore è Claude Fauriel. Inoltre, in questi anni, Manzoni frequenta gli ambienti giansenisti; Giansenio era un teologo olandese vissuto tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo, che sosteneva che non ci si può salvare senza l’aiuto della grazia divina. Già a vent’anni, Alessandro Manzoni ha una cultura estremamente vasta. Giunto a Parigi, Manzoni scrive dei versi dedicati a Carlo Imbonati, In morte di Carlo Imbonati , in cui è già chiaro quale sia la sua posizione rispetto al vero, alla realtà storica. Il 1810 è un’altra data importante: è quando avviene la conversione di Manzoni. Da ateo e materialista, egli diventa cristiano. Si dice che egli soffrisse di agorafobia; durante i festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone I, Parigi si riempie di folla esultante, e Manzoni perde di vista la propria giovane moglie, Enrichetta Blondel. Si racconta che quindi, terrorizzato, Manzoni fosse entrato in una chiesa parigina e promettesse di convertirsi se avesse ritrovato la moglie. Questo fa naturalmente parte dell’aneddotica; la conversione matura negli anni in cui vive a Parigi. Nel 1812, Manzoni torna definitivamente a Milano; comincia a scrivere la sua prima opera, Gli Inni Sacri. Questi costituiscono la prima tappa di una sua ricerca. C’è da subito l’esigenza id una lingua che possa essere percepita da un pubblico più vasto. Gli Inni Sacri avrebbero dovuto costituire una lirica corale, secondo la tradizione ambrosiana; una lirica intesa come preghiera, spogliata dell’individualismo. Gli Inni Sacri avrebbero ripreso gli eventi più importanti della liturgia cristiana, e quindi più cari e conosciuti al fedele: quelli che isolavano la vicenda terrena del figlio di Dio. Dovevano essere originariamente dodici; il più riuscito è la Pentecoste, composta tra il 1812 e il 1817. Manzoni non è soddisfatto della lingua, che risente ancora di termini che lui giudica essere lontani dalla sensibilità popolare.
Dopo l’avvio degli Inni Sacri , Manzoni inaugura il suo decennio creativo, che va dal 1815 al 1825; è in questo periodo che lui scrive la maggior parte delle sue opere. Passerà il resto della sua vita a rivedere e riscrivere le sue opere, rielaborandole. Può farlo perché egli non è un intellettuale borghese che vive del proprio lavoro. È l’erede di due immensi patrimoni: può dedicarsi senza pensieri alla sua creatività senza dover vivere della propria scrittura. Si sposerà due volte, e avrà molti figli. Il rapporto con la famiglia è però abbastanza complesso, proprio perché lui si isola nella sua attività di scrittore. La sua sarà una vita molto lunga; morirà poi nel 1873. Le opere Gli Inni Sacri sono il primo tentativo di una scrittura che coinvolga il pubblico più ampio possibile, che utilizzi una lingua più fruibile di quella letteraria. Il secondo tentativo avviene attraverso il dramma storico; scrive infatti prima Il Conte di Carmagnola , tra il 1816 e il 1820, e poi Adelchi. Sono tragedie che sono scritte più per essere lette che per essere rappresentate; il tentativo è quello di utilizzare un genere letterario che possa coinvolgere un ampio pubblico. Queste tragedie sono molto importanti; ci danno infatti un’idea sulla visione pessimistica che Manzoni ha della storia, che non dipende dagli uomini. La sua fiducia è nella Provvidenza. Fino a questo momento, la tragedia seguiva le tre regole aristoteliche di tempo, luogo e azione; invece, Manzoni sconfessa questa unità e dice che la verosimiglianza di un dramma non è data dal rispetto dalle regole, bensì dal soggetto della narrazione, ovvero dalla storia. A queste due tragedie Manzoni accompagna scritti teorici di poetica, ovvero la Lettera a Monsieur Chauvet , che l’aveva fortemente criticato dopo la pubblicazione della prima tragedia, la prefazione del Conte di Carmagnola, infine la Lettera a Cesare d’Azeglio sul Romanticismo. Manzoni scrive inoltre due trattati, negli anni prima di pubblicare i suoi scritti teorici sulla poetica (1819-1820); il primo è un trattato di morale, Osservazioni sulla Morale Cattolica , mentre il secondo è un trattato storiografico, intitolato Discorso Sopra alcuni Punti della Storia Longobardica in Italia, scritto mentre l’autore si sta occupando anche la stesura di Adelchi, romanzo storico. La lettera ed il trattato sono generi che Manzoni riprende dalla tradizione illuminista. Nel 1821 scriverà anche le Odi Civili. In questi anni inizia anche la stesura del romanzo; I Promessi Sposi esce in una prima edizione nel 1827, che viene ripresa e riscritta completamente alla luce del fiorentino parlato delle classi colte, adottata da lui dopo il suo viaggio a Firenze. L’edizione che noi leggiamo oggi è la cosiddetta quarantana, quella definitiva del 1840, dove prevale quella che secondo Manzoni può essere la lingua nazionale. 28.09. L’interesse che Manzoni per la storia è talmente grande e pregnante, che l’autore raccoglierà sempre moltissimo materiale per i suoi romanzi. Un esempio è il Discorso Sopra alcuni Punti della Storia Longobarda in Italia, nella quale parla della storia degli italici, enfatizzando il ruolo importantissimo della Chiesa, per lui impossibile da associare al potere temporale. Per lui dietro ai grandi fatti storici non ci sono i grandi personaggi, bensì anche quel popolo che subisce e che vive questa grande trasformazione storica. Questa affermazione è molto importante, tanto che sarà agli inizi del ‘900 da una rivista fondata a Parigi ( Le Hannal ), che darà inizio ad una scuola di storici, per i quali la storia non è solo quella degli eventi, ma anche dai popoli. Da qui partono anche molte considerazioni della storiografia moderna, e alla storia politica si uniscono storia sociale ed antropologia. È la prima volta che in un trattato di storiografia emerge questo tipo di riflessione, ed è una posizione molto interessante poi ripresa nelle opere successive. Tra gli scritti teorici troviamo anche tre scritti poetici, tre manifesti romantici. Il primo è a prefazione al Conte di Carmagnola ; qui Manzoni avverte che non seguirà i canoni classici aristotelici di tempo, luogo e azione, anzi li contesta, dicendo più o meno le
reale. Il coro di questa tragedia è relativo alla battaglia di Maclodio; qui si criticano le guerre civili e fratricide, riportando il tema risorgimentale che vede gli italiani come un solo popolo. La concezione della guerra è molo diversa rispetto a marzo 1821. Nell’Adelchi, tragedia un po’ più completa, troviamo invece due cori. Adelchi è il figlio di re Desiderio, ultimo re longobardo, che ha cercato di stabilire una serie di rapporti anche diplomatici con i regni vicino, tant’è che Ermengarda, sorella di Adelchi, era stata data come sposa a Carlo Magno. Ma nel momento in cui Carlo Magno decide di intervenire in Italia, egli ripudia la moglie, che offesa, va in convento dalla sorella, morendo tra le sue braccia. Il primo coro dell’Adelchi, alla fine dell’atto terzo, parla del popolo italico che assiste trepidante al cambio di invasore, sperando che i Franchi possano dare loro la libertà negata dai longobardi. Manzoni sottolinea l’ingenuità del popolo nel pensare che un altro invasore possa dare la libertà agli italici; c’è nuovamente l’invito risorgimentale di procurarsi da soli la propria libertà. Il secondo coro è quello di Ermengarda, e parla della sua morte; lei era innamorata di Carlo, ed è travolta dai ricordi di quando era sua sposa felice. C’è un contrasto tra questo amore terreno e l’amore per Dio, con le suore che la pregano di dedicarsi al Signore dimenticandosi di Carlo Magno. Ermengarda, sola e ripudiata, è come mille altre spose, sorelle, madri, e quindi può essere accolta da Dio nella sua provida sventura. 7.10. Tragedia tra 700 e 800 Francia e Italia: le tragedie seguono i principi classici coerentemente alla poetica del neoclassicismo, utilizzando le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Germania: dopo lo Sturm und Drang ed il movimento romantico, il modello diventa Shakespeare, che non rispetta le unità aristoteliche. Schlegel teorizza un nuovo tipo di dramma. È a Schlegel che Manzoni si rifà, per legittimare sia il mancato rispetto delle unità aristoteliche sia la novità del coro. Un altro problema che l’autore ha è la lingua; non potendo rifarsi a modelli stranieri, che utilizzavano una lingua aulica, deve inventare dal nulla un nuovo linguaggio. Tragedie di Manzoni Il Conte di Carmagnola (1816-1819, pubblicato nel 1820) – Manzoni prende lo spunto dallo storico ginevrino Sismondi, che nella sua Storia delle repubbliche italiane aveva rivalutato la figura di Francesco di Bartolomeo Bussone, un capitano di ventura vissuto all’inizio del Quattrocento, detto il Conte di Carmagnola. Egli, dopo aver militato sotto il duca di Milan Filippo Maria Visconti, passa ai servigi della Repubblica di Venezia al comando del cui esercito sconfigge i milanesi nella battaglia di Maclodio del 1427. Accusato di alto tradimento per avere rilasciato alcuni prigionieri, viene poi condannato a morte, diventando vittima innocente della ragione di Stato. Egli aveva infatti semplicemente applicato il codice militare; per Manzoni, la causa dell’innocenza è molto interessante. Il Carmagnola è un personaggio storico, come la moglie e la figlia, che afÏanca personaggi “ideali”, cioè inventati come il senatore veneziano Marco, amico del protagonista che poi tradirà. Il tema centrale è il contrasto tra ideale e reale, tra correttezza militare e ragione di Stato, tipico del Romanticismo. Altro tema è la condanna delle lotte fratricide tra italiani che favoriscono l’ingerenza straniera; questo si ritrova nella scena della battaglia di Maclodio, dove nel coro (tra l’altro unico della tragedia) si condannano e criticano le guerre civili e fratricide. C’è una difÏcoltà non indifferente nel risolvere il conflitto tra ideale e reale. La tragedia, quindi, non risolve il conflitto, il quale rimane accennato. Manzoni avverte di non aver definito abbastanza a fondo il personaggio del Conte di Carmagnola, delineandolo semplicemente come l’eroe buono e innocente. Adelchi (1822) – c’è un analogo pessimismo alla tragedia precedente, pur essendo più moderno del Carmagnola. Adelchi vive in una doppia contraddizione; una interiore,
che vede al centro il desiderio di gloria e la difÏcoltà di agire nel contesto storico, ed una sociale, che lo vede figlio di un re oppressore nonostante coltivi sogni di fratellanza e di giustizia. Il contesto storico scelto ha molte analogie con la situazione italiana tra Sette e Ottocento: gli italici, quando vedono arrivare i franchi, sono convinti che porteranno la libertà, così come gli italiani erano convinti che l’avrebbe portata Napoleone Bonaparte. L’influenza di Fauriel e dello storico Thierry induce Manzoni a prestare attenzione alle masse anonime, in genere trascurate dagli studi storiografici, e al contempo confutazione delle tesi di Sismondi (per il quale la Chiesa, facendo appello a Carlo Magno, avrebbe di fatto ritardato la formazione di uno stato italiano unitario). È significativo quanto Manzoni sia attento al dibattito storiografico attuale, e quanto la sua connessione all’intellettualismo francese sia profonda; ciò dimostra quanto egli stesso sia un intellettuale a tutto tondo. La sua letteratura è al servizio della storia. La vicenda dell’Adelchi è ambientata tra il 772 e il 774. I temi principali sono il contrasto tra ideale e reale, qui tra sentimento e dovere, tra sogno e realtà, tra morale e ragione di Stato e il male del mondo e la negatività del potere. È importante notare un terzo tema emergente, quello della “provida sventura”, già implicitamente affrontata nell’ode Il Cinque maggio, ovvero l’intervento salvifico della Grazia: Ermengarda e Adelchi, figli di oppressori, espiano la colpa del loro popolo morendo come vinti e riscattandosi in una prospettiva ultraterrena. Qui si scorge l’influenza giansenista che agisce sul cattolicesimo di Manzoni. I due protagonisti, Adelchi ed Ermengarda, sono tipici personaggi romantici, malinconici, divisi tra sogno e realtà, sentimento e dovere. Ermengarda è scissa tra la forza “empia” della passione e l’attesa di una morte cristiana, mentre Adelchi è diviso tra le aspirazioni alla gloria e gli obblighi impostigli dal padre. La loro è una coppia speculare, proprio come quella dei due re Desiderio e Carlo Magno, contrapposti ma simili in quanto oppressori e potenti. 12.10. I promessi sposi Un’opera letteraria, per Manzoni, deve avere anche un significato politico e sociale, che si dimostri il genere più adatto e aperto alla molteplicità delle cose e quindi del reale. Una delle scelte più innovative è quella di avere come protagonisti non dei personaggi illustri come erano Adelchi, desiderio, napoleone Carmagnola, Ermengarda… ma genti meccaniche , lavoratori onesti, poveri ma non nullatenenti, che rappresentano un modello di vita umile ma operativo. Poveri è più relativo alla situazione di impotenza di fronte ad una società ancora di tipo feudale (un esempio nella storia è la relazione con Don Rodrigo). Il tema della violenza e dell’ingiustizia è tipico della società seicentesca; proprio per questo che Manzoni sceglie questo periodo storico. I capitoli propriamente storici sono quelli in cui l’autore mette a frutto l’eredità della cultura illuminista lombarda, unendola alle necessità della nuova cultura romantica. Lo spirito analitico, l’interesse per le questioni economiche, la polemica per tutte le forme di malgoverno sono in sintonia con lo spirito di Verri e di Beccaria, e anche dei philosophes francesi. Al tempo stesso Manzoni affronta i problemi della cultura contemporanea, in particolare quello della educazione delle masse e della loro partecipazione alla vita politica, quello della formazione e della responsabilità delle classi dirigenti, quello del rapporto tra le une e le altre; tutte questioni urgenti nel Risorgimento italiano. Il romanzo storico, quindi, non è solo un’indagine attentissima sul passato ma contiene anche le risposte ai problemi del presente ed esprime un progetto di società futura. Manzoni si rivolge alla moltitudine che agisce senza razionalità e ai governanti che non prendono misure efÏcaci. Il progetto politico di Manzoni mira ad un coinvolgimento delle “masse” nella vita pubblica, anche se sotto la guida illuminata del ceto dirigente I promessi sposi sono quindi un libro educativo, nazionale, per tutti
Con il percorso di formazione di Renzo si compie, oltre alla sua crescita, anche il proposito ideologico di Manzoni. Il matrimonio rappresenta per lui l’inserimento nella società di cui la famiglia nell’ideologia cattolica e ottocentesca è il nucleo fondamentale. Inoltre, Renzo da contadino diventa artigianello , l’equivalente di un imprenditore, e pur rimanendo mezzo analfabeta, i suoi figli riceveranno un’alfabetizzazione ed una educazione adeguata. Il progetto politico di Manzoni risulta quindi chiaro: in questa borghesia attiva, di origine contadina, egli individua non solo il suo pubblico (quello della Lombardia e dei suoi tempi), ma anche il ceto da educare e porre alla guida delle rivoluzioni risorgimentali e della nazione che da queste nascerà. I valori fondamentali rimangono quelli cristiani, ed il successo sociale di Renzo deve essere preceduto dalla sua maturazione e dalla conversione dei suoi propositi di vendetta al perdono. Va superata qualsiasi conflittualità fra classi subordinate e classi alte, e alla giustizia umana deve subentrare quella divina; all’uomo spetta il compito di costruire un ordine migliore nei limiti assegnabili dalla provvidenza. La conclusione evita l’idillio, il lieto fine, poiché bisogna saper guardare il male nella sua realtà, rendere persino i guai utili per una vita migliore. Il romanzo oscilla tra tradizionalismo e modernità, e Manzoni si dimostra “europeo” ironico, scettico problematico che vede e denuncia il male ma sa che niente può spiegarlo. Storia della colonna infame Viene pubblicata in appendice all’edizione cosiddetta quarantana. Nel 1600 la credenza popolare attribuiva alla figura degli untori la diffusione incontrollata della peste. Questa credenza era supportata dalla classe dominante per coprire propria incapacità a sconfiggere la malattia. Nella storia viene ricostruito processo agli untori, 5 disgraziati condannati a morte utilizzando una confessione estorta con la tortura, e la responsabilità dei giudici che li avevano condannati. Manzoni si interessa a questa storia per vari motivi, e da cattolico si appassiona soprattutto al tema delle responsabilità individuali. Quest’interesse deriva anche la polemica con Pietro Verri, lo zio, illuminista che ritiene che la responsabilità sia del sistema, della classe collettiva dirigente, al contrario del nipote. Il termine infame nel titolo è ambiguo; il titolo deriva da una colonna commemorativa che il tribunale aveva elevato sul luogo dove sorgeva la casa degli imputati. L’infamia era, per i giudici, quella degli untori, per poi diventare quella dei giudici nei confronti dei poveri condannati. 15.10. Il Seicento non è un secolo scelto a caso: ha un ruolo specifico della storia. Manzoni segue il principio classico ciceroniano della “ historia magistra vitae ”, che ha il proposito di insegnare, come possiamo vedere già dal primo capitolo dei Promessi Sposi, tramite digressione storica riguardante la figura dei bravi (contro i quali più volte si era cercato di intervenire promulgando “grida” che in realtà non risolvevano niente). Il Seicento è il secolo della giustizia ingiusta, che non interviene, non è in grado di riparare ai mali del mondo. La storia insegna, ed è lo strumento attraverso cui si può operare una riflessione. Il Nome della Rosa è una storia di genere “giallo”, che narra di omicidi. Un inquisitore viene infatti chiamato in abbazia per indagare sull’omicidio di alcuni monaci; si scopre che il responsabile era il bibliotecario, che non voleva che nessuno potesse accedere ad alcuni testi di Aristotele, un libro della sua poetica dove si parla del “riso”, e si conclude con l’incendio della biblioteca. Nel testo che stiamo per leggere si immagina che il protagonista torni anni dopo e cerchi di raccogliere i frammenti dei libri bruciati.
POST-MODERNO. Tendenza nata all’indomani della crisi di ciò che era modernità nelle arti. Sintesi tra il pensiero negativo e il disimpegno politico, una sorta di regressione rispetto al periodo precedente. Si avverte la profonda la crisi dei valori che avevano contraddistinto tutto il mondo culturale negli anni del boom economico. Umberto Eco era un critico, esperto di Medioevo, scrittore, intellettuale, molto poliedrico, e il Nome della Rosa inaugura la stagione letteraria degli anni 80. Ha una doppia struttura, romanzo storico e giallo, con molteplicità di livelli di lettura. Trae ispirazione da Sherlock Holmes in alcuni nomi di personaggi e luoghi che richiamano Watson e Baskerville, in un desiderio di richiamarsi. Il testo è chiaramente molteplice, multidimensionale, difÏcile da catalogare, comico e drammatico. Può essere considerato post-moderno sia nella struttura che nell’aspetto formale. Riutilizza la materia storica e metastorica del medioevo, rappresenta la molteplicità dei generi e della materia, del pensiero, dei registri linguistici, l’ironia, l’humour, il grottesco, e anche il tema centrale, l’oggetto centrale, il “riso” considerato difesa della ragione, e la biblioteca, luogo privilegiato dal post-moderno perché contiene tutti i generi del passato. Il sunto è che tutto è già stato detto e fatto, non c’è più niente da insegnare, la storia ha già finito. Aspetto rilevante del post-moderno: sorta di pausa, di crisi, tutto è già stato fatto e detto. Nulla da sperimentare. Atteggiamento quasi volutamente provocatorio, un po' ironico, a sottolineare l’incapacità dell’intellettuale; è scrittore ad assumere un ruolo definito in una società sempre più tecnologica. Altro aspetto ricorrente è il “citazionismo”, si cita continuamente tutto ciò che è stato fatto in passato. In Umberto Eco anacronismi clamorosi e voluti, cita anche autori cinquecenteschi che non c’entrano niente con il Medioevo, a differenza di Manzoni, che invece ha un’attentissima ricostruzione storica tanto che sia nei trattati storiografici che nel romanzo riesce ad acquisire materiale talmente vasto che ne usciranno due opere diverse. Lui utilizza la storia al meglio, ci dà anche la data precisa dei Promessi Sposi, crede nella ricostruzione storica, nel suo ruolo e nei suoi valori. Storia magistra vitae. Qui invece non c’è nulla da imparare, è già stato tutto detto, e ci si può rivolgere alla storia solo citando ciò che è stato fatto in passato. Eco è molto appassionato di Manzoni: descrive il suo stile come quasi “cinematografico”, malgrado il cinema non esistesse ai tempi di Manzoni. Quest’ultima pagina si chiama “ Nomina nuda tenemos ”. Nuova concezione della storia. Il tema della storia è sempre diverso, interpretato ancora diversamente da Verga e da Montale. 20.10. GIACOMO LEOPARDI È il promotore di un pensiero che si svilupperà nei decenni successivi e nel ‘900, ed è anche il creatore di una idea moderna di poesia, non più basata su un modello astratto ma sull’identità concreta dell’io, sulla sua vicenda esistenziale, sulle sue emozioni e sulle sue idee. Leopardi riassume in sé gli aspetti più significativi di una lunga stagione storica e culturale. È l’ultimo autore antico, l’ultimo vero classico ma anche il primo moderno: nessun “classico” è così coinvolgente. La sua lingua, nonostante sia artificiale e lontana dall’uso, veicola un messaggio profondamente legato alla condizione moderna dell’uomo, e dunque attuale. L’interesse di Leopardi non riguarda soltanto la sua poesia, bensì anche i contenuti della sua riflessione; lui accompagna la produzione poetica ad un’attività speculativa, costante e a lungo negata. Il mondo di Leopardi è per noi lontano, sia culturalmente che storicamente, ma i termini dei problemi posti per la prima volta da Leopardi sono attuali, ovvero il rapporto con la natura, la condizione artificiale dell’uomo moderno, i
suo pensiero aveva un metodo aperto, asistematico, che prescinde dalle procedure istituzionali della filosofia. In più, Leopardi non pensai in quanto filosofia, ma in quanto essere umano e sociale. Il suo punto di vista è sempre duplice, e ha due criteri guida: la rispondenza alle esigenze profonde dell’individuo, e la rispondenza ai caratteri della condizione umana in sé considerata. Il vero esistenziale che interessa a Leopardi è il vero esistenziale dell’io e il vero sociale dei molti. Il pensiero di Leopardi attraversa un tema al tempo abbastanza discusso e tipico dell’illuminismo, ovvero l’infelicità umana. Diventa un nodo problematico tra il 1817 e il 1818. Nella prima fase di questo nodo, tra il 1817 e il 1823, Leopardi ragiona su come l’infelicità umana non dipenda dalla natura, considerata un’entità positiva perché produce le illusioni che rendono ‘uomo capace di virtù e di grandezza. La civiltà umana ha però distrutto le illusioni che rendono la vita sopportabile ed ha mostrato agli occhi dell’uomo l’arido vero. L’infelicità dell’uomo non è un dato costitutivo, esistenziale, ma storico. Gli antichi erano ancora capaci di grandi illusioni, mentre i moderni le hanno perdute completamente. Questo è il pessimismo storico: l’infelicità umana è ritenuta il frutto di una condizione storica, e i moderni possono recuperare le illusioni degli antichi attraverso l’azione e l’eroismo. In questa fase, la poesia ha lo scopo di ricostruire quelle illusioni che la civiltà ha distrutto. Tra il 1819 e il 1823 c’è invece la fase del pessimismo cosmico, scatenato anche dal fallimento dei moti del 1820-21: il sistema della natura e delle illusioni entra in crisi. Leopardi aderisce al materialismo ed elabora la teoria del piacere (quindi la sproporzione tra desiderio e soddisfazione possibile). La natura diventa colpevole di infondere negli uomini il bisogno illimitato di felicità e piacere senza poterlo soddisfare. Illimitato il desiderio, limitata l’occasione di soddisfarlo. L’infelicità è un dato costitutivo ontologico dell’essere umano, e la natura è matrigna crudele, mentre la ragione è l’unico strumento per smascherare le illusioni, non più il nemico che elimina le illusioni. Questa fase coincide con l’abbandono della poesia e la predilezione per la filosofia. Dopo il 1828 e fino al 1837 si apre un piccolo spiraglio; Leopardi pensa che gli uomini si debbano impegnare eticamente e civilmente. Gli uomini devono essere solidali, senza aggravare la loro condizione infelice. Quello di Leopardi è un nuovo progetto basato sulla coscienza del vero e sulla solidarietà tra gli uomini contro il nemico comune: la natura. Qui Leopardi ricomincia a scrivere versi; la poesia ha una funzione diversa. Non ha più il compito di creare le illusioni, ma quello di smascherarle e di dire il vero. La sua è una poesia filosofica, una poesia pensiero. 21.10. La poetica Leopardi e il Romanticismo – Leopardi non segue i romantici, e scrive il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), inviato all’editore Stella e mai pubblicato come gli altri due scritti di argomento afÏne rivolti alla Biblioteca italiana. La posizione di Leopardi è originalissima, contraria al Romanticismo così come lo prospetta la scuola lombarda: autorevolmente antiromantica. Il suo rifiuto riguarda il rapporto tra poesia e sensi: i romantici vogliono recidere il rapporto tra poesia e natura, ma l’origine di ogni emozione artistica è nel rapporto con la natura, che era più facile e diretto per gli antichi ed è ora artificioso e difÏcile per i moderni. Gli antichi erano naturalmente poeti, e per Leopardi erano loro i veri romantici, a differenza dei moderni, che affrontando tutto razionalmente non possono essere poeti. La poesia, nella prima fase del pensiero di Leopardi, ha quindi la funzione di ristabilire sul piano dell’immaginazione quel rapporto primitivo e diretto (sentimentale, ovvero dei sensi) con la natura che la civiltà e la ragione distruggono sul piano dell’intelletto. L’unica strada per ottenere ciò è lo studio degli scrittori antichi e l’imitazione dei loro procedimenti. Il classicismo leopardiano si fonda su questo: la condanna del presente e della modernità.
Anche per Leopardi, però, la poesia deve avere una funzione sociale come per i romantici. Lui ci trova però un senso più profondo: si tratta non tanto di favorire una prospettiva di cambiamento, bensì di tenere vivi quei valori (eroismo, virtù, coraggio, impegno civile ecc.) così sviluppati nel mondo antico che rischiano di atrofizzarsi nei moderni. Presenti in Leopardi sono alcuni importanti aspetti dell’immaginario romantico (scissione tra io e mondo, tensione tra uomo e natura, tra natura e civiltà), come anche presenti sono i temi dell’angoscia, del dolore, dell’infinito uniti all’atteggiamento combattivo e al motivo del “canto” lirico. Leopardi è estraneo al Romanticismo per la sua ideologia materialista. La sua poetica attraversa tre fasi: la poesia sentimentale, tra 1817 e 1823, quando compone le Canzoni civili e gli Idilli , il primato della filosofia (1823-1827) e infine la poesia pensiero (1828-1837). Leopardi non lascia niente al caso. La sua riflessione intorno al tema centrale dell’infelicità umana lo accompagna per tutta la vita a partire dal 1817-18. Noi sappiamo di questo attraverso alcune pagine straordinarie che Leopardi scrive non per la pubblicazione; sono 4000 pagine di appunti che lui scrive nell’arco di tempo di 20 anni. Questi appunti sono raccolti nello Zibaldone; questa parola è una sorta di miscellanea, ovvero qualcosa che contiene argomenti vari. Non è un diario, anche se contiene alcuni riferimenti a momenti biografici, ma è una sorta di laboratorio intellettuale in divenire, un diario di un pensiero. Si trovano qui pensieri che poi diventano versi poetici; lo Zibaldone viene scritto da Leopardi per sé stesso. Viene pubblicato poi nel 1900, edizione nazionale curata da Carducci. Sono pagine che Leopardi porta sempre con sé, perché gli servono per chiarire il proprio pensiero. Qui lui affronta diversi temi, come ricordo, memoria e lontananza. PAGINA 34 – TEORIA DEL PIACERE; PAGINA 26 – RICORDI 26.10. PRIMA FASE DELLA POESIA LEOPARDIANA Poesia sentimentale (dei sensi) – Pessimismo storico Premesso che tutte le poesie di Leopardi vanno in una raccolta che si chiama Canti (pag.92), nella prima fase del pessimismo storico e della poesia che deve risvegliare le illusioni il poeta prende due direzioni, quella del pensiero a livello individuale e quella a livello sociale. Le Canzoni Civili rispondono all’umanità: in prossimità di quelli che erano i moti del 20-21, Leopardi vuole risvegliare le illusioni e quelle virtù che hanno reso grandi gli antichi come l’eroismo e il coraggio. Le Canzoni Civili sono dieci, e sono esempio di civiltà. Costituiscono la riflessione sul piano storico dell’umanità, e su quanto sia importante risvegliare le illusioni. Ce ne sono due che sono famose come “canzoni del suicidio”, ovvero il Bruto Timore e l’ultimo Canto di Saffo (1822). Oltre al tema del suicidio, queste due canzoni affrontano anche quello dell’eroismo e della sfida, virtù coraggiose. Parlano di due suicidi; il primo, quello di Bruto, che si uccide quando vede trionfare l’eredità di Cesare al potere, e quindi un suicidio politico, ed il secondo, quello di Saffo, che si uccide non solo perché non ricambiata nell’amore per Faone, ma perché esclusa dalla bellezza e dall’armonia della natura. Un animo sensibile in corpo brutto, che soffre di questa esclusione. Le Canzoni Civili , e in particolare le due dei sucidi, costituiscono una poesia difÏcile e impegnata, il cui tema prevalente è quello civile. L’ ultimo Canto di Saffo è emblematico proprio perché Leopardi propone una poesia che riscopre il linguaggio degli articoli, ma veicola un tema nuovissimo, ovvero quello di un suicidio esistenziale. È la sfida del soggetto, ovvero Saffo alla natura, che l’ha esclusa dalla sua armonia e dalla sua bellezza, e che l’ha condannata alla sofferenza. Non siamo ancora arrivati al concetto di natura matrigna, ma Leopardi riconosce già che l'uomo è destinato all'infelicità. Il linguaggio arcaico e la canzone petrarchesca vogliono richiamare all'antico. Il tema del suicidio qui è dato da una delusione amorosa, ma è comunque un atto di coraggio che Saffo compie. (Pag. 101). È una canzone petrarchesca, il cui modello poi Leopardi modifica. Il suo linguaggio è antico, con termini che lui definisce
nemico non più la ragione, bensì la natura. La ragione serve all’uomo per guardare lucidamente al proprio destino. Leopardi sceglie quindi il linguaggio della ragione, e quindi la filosofia, scrivendo le Operette Morali. Il tono utilizzato è ironico, ecco perché il diminutivo “operette”; trattare di argomenti molto importanti, come quello dell’infelicità umana, con un tono leggero, sullo stile dell’autore greco Luciano di Samosata (che Leopardi cita direttamente). Quest’ultimo scrive i Dialoghi dei Morti. Sono anche brevi componimenti, in forma di dialoghi tra personaggi storici o personaggi immaginari. Il pubblico a cui Leopardi si rivolge è lo stesso pubblico di Manzoni e dei Promessi Sposi, ma l’intento è profondamente diverso: non è quello di incoraggiare alla formazione di una nuova società, fiduciosi di poter costruire una prospettiva futura, bensì quello di sfatare i miti di progresso e di mettere a nudo la natura dell’uomo, affrontando con una nuova morale il destino di infelicità dell’uomo, che può essere mitigato soltanto in parte dalla solidarietà. Queste operette sono 25, quasi tutte scritte nel 1824, tra gennaio e novembre. Sono prose di argomento filosofico e di taglio satirico, che si esprimono in vari modi tra narrazioni, discorsi e dialoghi. La prima edizione è del 1827, ed è un’edizione milanese. Sono inoltre comprese nella seconda edizione fiorentina del 1834. L’edizione definitiva però è postuma (1845), e ne contiene soltanto 24. Nonostante il taglio satirico i temi affrontati sono cruciali, riguardanti la filosofia. Terza Operetta – Dialogo di un folletto e di uno gnomo – sono due personaggi fantastici, che si incontrano, e parlano della notizia dell’estinzione del genere umano, considerando che a loro non cambia nulla, e che la natura continuerà il suo corso come se il genere umano fosse semplicemente un accessorio irrilevante di un sistema cosmico che ha in sé la sua perfezione ed il suo eterno meccanismo di creazione e distruzione. Temi importantissimi affrontati sono:
si occupi del destino degli uomini e li induca alla sofferenza, facendo anche un paragone (“sarebbe come un ospite che invita qualcuno a casa sua e che poi lo costringa in una stanza buia e fredda, priva di conforto”). La natura risponde che non è interessata al destino umano, è indifferente alla sofferenza degli uomini. L’operetta ha un doppio finale; nel primo, due leoni smagriti per il troppo digiuno divorano l’islandese e vivono ancora qualche giorno, mentre nel secondo si alza una tempesta di sabbia nel deserto che travolge l’islandese, la cui mummia recuperata verrà poi posta in un mausoleo. In entrambi i casi, si ha la prova che l’infelicità dell’uomo è causata dalla natura. Qui è esplicitata la teoria meccanicistica e materialistica dell’eterno ciclo di costruzione e distruzione; è interessante il fatto che a spiegare questa teoria sia la natura stessa. La domanda dell’islandese è una domanda di senso, un punto centrale della filosofia di Leopardi. Non è semplicemente l’esplicitare il suo materialismo, ma c’è una domanda di fondo: a chi giova tutta questa sofferenza del mondo, se chi fa soffrire non ne ricava un vantaggio, e chi soffre ancora meno? Questa operetta è il segno del passaggio ormai avvenuto alla seconda fase del pensiero leopardiano, il pessimismo cosmico. 2.11. Canti pisano-recanatesi Dopo le Operette morali c’è una ripresa della poesia. Siamo ancora nella fase del pessimismo cosmico, seconda fase del pensiero leopardiano. Questa è però una poesia con uno scopo ben diverso da quella sentimentale; questa è la poesia pensiero, e ha lo scopo di dire il vero e di mettere l’uomo di fronte alla sua condizione, utilizzando il linguaggio della ragione. È una poesia filosofica. Leopardi migliora in questo periodo a livello fisico, e con questo miglioramento ritrova l’ispirazione per scrivere i versi. Questo viene definito da lui come risorgimento – è il risorgere del desiderio di poesia, e il frutto di questo risorgimento è il testo A Silvia. Questo testo inaugura i canti detti pisano-recanatesi, ovvero scritti tra Pisa e Recanati tra il 1828 e il 1830, anno nel quale Leopardi lascia definitivamente Recanati, prima per Firenze e poi per Napoli. A Silvia (pag. 120) Scritto a Pisa nel 1828, è il primo dei canti pisano-recanatesi ed è la prima canzone libera. Leopardi fa questa scelta perché ha bisogno, in quanto poesia pensiero, di far fluire e argomentare il suo discorso. Come tutti i canti pisano-recanatesi, ha una struttura precisa; da un ricordo o una memoria si arriva ad una parte filosofica, dimostrativa, argomentativa. Questi canti sono il massimo dell’individuale e il massimo universale. Silvia è la figlia del cocchiere di casa Leopardi; si chiamava in realtà Teresa Fattorini, ed è morta giovanissima di tubercolosi, nel 1818 (10 anni prima del componimento di questo testo). Il nome Silvia è un omaggio a Tasso e al suo dramma pastorale Aminda, dove Silvia è la ninfa dei boschi amata dal pastore Aminda. In questo caso lei è una sorta di alter ego di Leopardi; come lui, anche Silvia rappresenta la caduta delle illusioni. Lei è la prova certa ed evidente dell’inganno della natura, della promessa non mantenuta che la natura fa agli uomini. L’elemento idillico è il ricordo di Silvia, una persona vera, qualcosa di vissuto a cui sono legati tutti i sensi; tutta la sua giovinezza è raccolta in questi versi. L’immagine di Silvia è quindi legata al sentirla, all’interpretazione di lei tramite i sensi. Quello che Leopardi vuole farci provare è lo strazio di una vita così giovane spenta, nonostante lei, come ragazzina del popolo, non avesse così tante speranze. Per Silvia quello che non si è compiuto è la vota stessa. Dopo la prima parte del testo, descrittiva, che parla della giovinezza di Silvia, arriva la parte gnomica; non c’è più Leopardi, Silvia o il ricordo. C’è la considerazione che vale per tutti gli uomini (v. 36). La natura non mantiene la promessa di felicità che
dei canti pisano-recanatesi. Inoltre, ha una parte descrittiva che poi si unisce ad una più filosofica. C’è un parallelo tra il costume di questo passero, frutto della sua natura, e lo stile di vita di Leopardi, che vive isolato dal mondo e dai suoi coetanei. C’è quindi una contrapposizione tra l’isolamento del passero solitario, e l’atmosfera gioiosa dovuta alla primavera, al fiorire della natura e della vita. Da qui, il passaggio al confronto con quello che è l’isolamento del poeta, vissuto con tristezza da quest’ultimo. La differenza è che il passero, alla fine della sua esistenza, non avrà rimpianti, perché l’isolamento fa parte della sua inclinazione naturale, cosa che non è per Leopardi, il quale si pentirà del suo isolamento. Questa composizione è però di attribuzione incerta perché, mentre negli altri canti pisano-recanatesi la riflessione finale era riferita a tutta l’umanità, qui il punto di riferimento è Leopardi. Il rimpianto dell’isolamento colpirà lui, ma non tutti gli altri uomini. Canto notturno di un pastore errante nell’Asia Ultimo grande canto pisano-recanatese scritto a Recanati; dopo aver scritto questo, Leopardi lascerà Recanati per Firenze. Siamo tra la fine del 1829 e l’inizio del 1830; qui inizia la terza fase della poesia di Leopardi. È scritto in più riprese, con un’elaborazione molto lunga e complessa; l’argomento è estremamente vicino all’Operetta Morale dialogo della Natura e di un islandese. La materia essenziale qui è presentata sotto una luce inedita rispetto ai testi precedenti: non si parte più dall’io del poeta (o una proiezione di esso), da vicende personali, e non c’è neanche un soggetto poetico o un alter ego. Il protagonista è un pastore errante nell’Asia; non è quindi un riferimento geografico. Tramite le sue letture, Leopardi aveva scoperto di alcuni pastori nomadi asiatici che erravano da un terreno all’altro conducendo i greggi al pascolo. L’interlocutore del pastore, questa volta, è la luna, rappresentante della natura in questo componimento. L’argomentazione è serrata, a tre livelli: la luna, il pastore, il gregge. Le domande poste dal pastore sono domande di senso, esattamente come quelle dell’islandese alla natura. Le parole sono messe in bocca ad un uomo primitivo, semplice, ingenuo, e sono interrogativi elementari che però coinvolgono grandi problemi metafisici. Questa è la poesia filosofica, basata sul vero. Anche il paesaggio è diverso; non è idillico o familiare, bensì è un luogo lontano e astratto, quasi metafisico. C’è questa idea di uno spazio sconfinato e di un tempo infinito; non un infinito creato dall’immaginazione, bensì uno creato dalla ragione. Non il dolce navigare dell’Infinito, ma la coscienza tipica di questa fase del pensiero leopardiano. La luna è la natura, nel suo ciclo immutato, eterno e armonioso. A lei si rivolge il pastore, descrivendo la fragilità del genere umano (ad esempio il vecchietto infermo che vive in condizioni precarie descritto nella seconda strofa, che rappresenta una ripresa del vecchierello di Petrarca). Ancora meglio è descritta la nascita nella terza strofa; nel venire al mondo non c’è niente di gioioso. A che scopo si viene al mondo se poi si deve essere consolati? Le domande del pastore cadono ovviamente nel vuoto. La luna è lontana, algida, imperscrutabile, e continua il suo ciclo, che è quello della natura. Anche gli animali conducono una vita, se vogliamo, infelice. Ma loro non hanno la percezione dell’infelicità, la consapevolezza del loro stato. Il ragionamento però va oltre: il pastore si chiede se sarebbe felice, se fosse un altro elemento della natura. La conclusione raggiunta è però ancora più terribile; forse, pensa, comunque un essere vivente venga al mondo, che sia uomo o animale, nasce infelice. Questo testo è estremamente complesso: la rappresentazione della vita è molto studiata, si alternano settenari ed endecasillabi e c’è una struttura sintattica ampia, un’argomentazione precisa. Si parte dalla luna, interlocutore ma anche modello di vita
superiore, poi si passa alla vita del pastore e quindi degli uomini, evidenziata nella sua fragilità, e si finisce con la vita degli animali, e la conclusione che l’infelicità sia connaturata ad ogni essere vivente. Questa è la massima espressione di poesia filosofica. Questo è il punto di arrivo del pessimismo cosmico, quasi un presagio di quella che sarà la fase successiva della poesia leopardiana. 9.11. TERZA FASE DELLA POESIA LEOPARDIANA 1831- Leopardi abbandona definitivamente Recanati. Si trasferisce a Firenze, dove elabora una nuova poetica che è il frutto dei contatti con i cattolici moderati dell’Antologia di Vieusseux. Viene poi il confronto con l’ambiente culturale napoletano, e la permanenza a Napoli fino alla morte. Questa è una fase di profondo, radicale rinnovamento poetico, tanto che la critica a lungo ha considerato questa fase come una involutiva, minore. Questa ultima produzione è una proposta nuovissima, sul piano tematico e stilistico, della poetica leopardiana. L’amore per Fanny Targioni-Tozzetti ispira la sua permanenza a Firenze. Sul piano tematico, considerando questa fase globale, troviamo tre aspetti. L’amore vissuto come passione, da cui deriva il Ciclo di Aspasia, la riflessione filosofica in ottica negativa e antidealistica, scaturita dalla sua contrapposizione agli ambienti progressisti, e infine l’intervento ideologico politico, dove Leopardi rifiuta i miti moderati del progresso e di riforma, e offre una sua personalissima proposta, quella di solidarietà. Sul piano formale, troviamo ancora la canzone libera come strumento di espressività e ci sono anche tentativi molto nuovi; viene anche proposto uno stile fondato sull’uso estremo della sintassi. Periodi brevissimi, anche di una sola parola, si alternano ad altri molto lunghi, e il lessico si avvale di termini e linguaggi definito anti-idillico. Prevalgono il presente e il tangibile, e non il ricordo e l’illusione. Ciclo di Aspasia Composto da cinque testi, scritti tra il 1831 e il 1834, negli anni di Firenze, ispirato all’amore per Fanny Targioni-Tozzetti. I componimenti che ne fanno parte sono i seguenti : Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A sé stesso e Aspasia. Fanny era l’animatrice di un salotto letterario, molto conosciuta a Firenze. Era moglie di uno scienziato, e donna molto viva intellettualmente. Leopardi se ne innamora di subito, ma l’amore non è ricambiato. La presa di coscienza di questo rifiuta genera in Leopardi una delusione fortissima. Benché Fanny lo ammiri, lo inviti a casa e lo incoraggi dal punto di vista culturale, non ricambia i sentimenti romantici. Non solo, ma Leopardi riesce ad ottenere un raro autografo da regalare a Fanny, che li collezionava. Le sue lettere e la sua ammirazione probabilmente illudono Leopardi. Questo ciclo di poesie è un ciclo al di fuori della tradizione lirica del petrarchismo. L’amore è vissuto come un’esperienza tragica ma vivificatrice, richiama quasi lo stilnovismo tragico di Cavalcanti. Quella che Leopardi ci offre è una rappresentazione originale dell’amore; lui lo considera un’illusione che la ragione non può mascherare per effetto. Anzi, per Leopardi, l’amore è la dimostrazione più profonda dell’infelicità umana. Presuppone un’idea di felicità che non sempre si può realizzare. Allo stesso tempo, l’amore è una consolazione concessa dal fato agli uomini; Leopardi dice infatti che l’amore e la morte sono un bene supremo per l’uomo. L’amore fa sentire vivi, e la morte mette fine alla sofferenza dell’uomo. Il pensiero dominante – riprende in modo specifico lo stilnovismo tragico di Cavalcanti. Amore e morte – tema dell’amore come esperienza radicale e privilegiata al pari della morte, l’unico antidoto al mondo sciocco