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“Governamentalità”, ossia la tecnica del governo
Typology: Study notes
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Illuminismo e governa mentalità
Riformismo e dispotismo nelle Sicilie da Filippo V a Ferdinando IV
Giovanni Brancaccio: da togato a ministro
per la successione al trono di Spagna, fu pubblicata un’opera di Giovanni Brancaccio in difesa delle antiche arti della
memoria, dallo strano titolo: Ars memoriae vindicata.
Cartesio e la sua fortuna
Principali contenuti della ricerca filosofica di Cartesio (Discorso sul metodo)
Fin dall'inizio delle sue ricerche su musica, ottica, matematica e geometria, Cartesio segue un piano preciso: è il
progetto di una scienza interamente nuova, sganciata dall'insieme di nozioni che si insegnavano nelle scuole. Per
garantire piena libertà alla ricerca sul mondo fisico e alla riflessione sulla psiche umana, Cartesio afferma l'esistenza
di due sostanze radicalmente diverse: la sostanza estesa, propria dei corpi che si estendono nello spazio; la sostanza
pensante, propria della mente.
Il passo successivo è quello di disfarsi del patrimonio di conoscenze generalmente accolto, che Cartesio respinge in
blocco, convinto che anche un solo uomo possa costruire un nuovo edificio del sapere, se riesce a individuare il
metodo esatto. Questo metodo è offerto dalle matematiche che forniscono la struttura logica, cioè il modello di
ragionamento deduttivo da utilizzare. Tale modo di procedere viene sintetizzato nel Discorso sul metodo in quattro
regole: evidenza (non accogliere come vera una cosa a meno che non ti sembri tale con piena evidenza, cioè accogli
solo quelle affermazioni sulle quali non puoi formulare il benché minimo dubbio), analisi (dividi ogni difficoltà che
incontri in particelle), sintesi (organizza i pensieri con ordine, partendo dai più semplici per arrivare ai più complessi),
enumerazione (fai verifiche ed enumerazioni complete e generali).
Fisica e metafisica cartesiana
Nel trattato incompiuto sul Mondo Cartesio propone le sue ipotesi sulla struttura corpuscolare del mondo fisico: parla
della natura della luce, della teoria dei vortici di materia eterea al centro dei quali ruoterebbero in cielo stelle e pianeti,
espone le leggi del moto (tra cui la legge d'inerzia), la sua fisiologia, anatomia e psicologia. Il tentativo di spiegazione
è rigorosamente meccanicistico: tutti i fenomeni fisici, biologici e psicologici appaiono a Cartesio conseguenze
necessarie del moto di corpuscoli (particelle di materia, dalle forme e grandezze diverse), impresso originariamente da
Dio, ma sottoposto a leggi meccaniche immutabili.
Il percorso metafisico (così come si sviluppa nel Discorso sul metodo e nelle Meditazioni sulla filosofia prima ) inizia
invece dall'esercizio del dubbio più radicale, rifiutando tutte le conoscenze acquisite. I nostri sensi ci ingannano, per
esempio un remo immerso in acqua ci appare spezzato, e in alcuni casi non sappiamo neppure se siamo svegli oppure
sogniamo. Non solo temiamo di essere ingannati dai nostri sensi, ma potremmo anche essere ingannati da un genio (o
spirito) maligno, molto più potente dell'uomo. Tuttavia, mentre dubitiamo, sappiamo di essere portatori di un pensiero:
se vengo ingannato, se ho pensieri anche falsi, in una parola se dubito, esisto in quanto sono un'entità spirituale che
pensa ( dubito, ergo sum ‒ scrive Cartesio ‒ cioè "dubito, dunque esisto"). È a partire da questo
punto che il filosofo inizia la ricostruzione del sapere, affermando la precedenza della sostanza pensante (l'anima)
su quella estesa (il corpo): so di pensare prima di sapere di avere un corpo fisico esteso.
Mnemosine tradita? Critiche alla filosofia senza memoria
Meditare sulla memoria era un modo di contribuire alla ricerca di igiene mentale e d’inserirsi in un flusso
problematico che da due secoli stava segnando il cammino della civiltà europea. Il fenomeno che in quel momento
occupava il centro della scena era lo esprit de gèomètrie, ed esso a prima vista rispecchiava in prevalenza gli
orientamenti della sensibilità e del gusto, apparentemente era diretto ad una riforma antibarocca, ma in realtà andava
bene al di là di quel contigente carattere estetico, obbedendo alla fondamentale esigenza di controllare e sottoporre a
critica radicale i meccanismi della conoscenza.
Tuttavia molti analisti degli orientamenti attuali (e Brancaccio fu uno di essi) si mostrarono inclini a paventare che
quel movimento critico realizzasse una nuova tirannia geometrico – matematica, e si risolvesse in una pericolosa
svalutazione del buon senso antico. È necessario soffermarsi un momento su questo pericolo immaginario, diffusosi
all’inizio del Settecento, perché esso costituisce un ben preciso risvolto anche dell’interesse verso la dinamica mentale
della memoria.
Nel suo trattato Brancaccio tralasciava di spiegare se l’esigenza di rigore e di purismo, anche da lui condivisa, traesse
origine dall’evidenza “personale”, ideale e puramente spirituale, più o meno direttamente ispirata dalla religiosità
protestante, oppure dalle due forme della chiarezza e distinzione “razionale”, di indirizzo o logico – intellettualistico
o “sensibile” degli empiristi: quest’ultima corrente era incline al metodo sperimentale e più vicina alle origini scettiche
montaignane. Erano tre versioni e posizioni della filosofia in corso ed in voga agli inizi del Settecento, e tutte e tre
derivavano dal flusso neocartesiano, ma tra loro molto diverse. Di esse le prime due, pur ben distinte, tendevano a
convergere verso la conservazione dello status quo, interpretato in modo intimistico ed individuale, attraverso la
mediazione dello spirito e della mente. Ma in realtà fu la terza via quella che prevalse e che ben presto rivelò il suo
carattere nettamente innovativo. L’eredità specificamente cartesiana si era solo in parte allontanata dalle originarie
impostazioni nettamente razionalistiche, ed era stata sottoposta ad un processo di depurazione delle sue ambiguità,
richieste, quando Descartes era in vita, dalla necessità d’inserirsi e sopravvivere in ambienti ostili: la maggiore
chiarezza dei fini di quel pensiero aveva messo sempre più in evidenza proprio quel terzo carattere, decisamente
empiristico e problematico, collegato al senso comune e alle mentalità sociali.
Perché la memoria è al centro della speculazione di Giovanni Brancaccio?
Capitolo 1 – Il supremo consiglio d’azienda e i nuovi metodi di governo.
Michel Foucault coniò il termine governamentalità, riferendosi a uno dei tre processi storici che si erano presentati alla
fine del Medio Evo. Le istituzioni e le formazioni insieme a riflessioni sono elementi importanti del potere esercitato
nell’Europa moderna. Il governo venne vista come forma di potere preminente, rispetto ad altri, come la sovranità, la
disciplina, la “polizia”.
Sempre più rilevante a partire dagli anni Cinquanta di questo solo fu la riflessione sullo Stato interamente concentrata
sul rapporto tra gli sviluppi della società europea nel suo complesso e quello delle istituzioni politiche. L’analisi delle
scienze sociali impone una certa forma alla storiografia e allo Stato, in versione elettivo e rappresentativo dell’età
contemporanea. Di fatti il modello principale che emerge è quello dell’assolutismo europeo a legittimazione dinastica.
Il risultato è fortemente conflittuale, e proprio in questo contesto, per Foucault occorre studiare le forme della governo
mentalità, ovvero le istituzioni e le mentalità di tre secoli della storia dell’Occidente, fino a giungere alla rottura
epistemologica che si impone nell’età del tardo illuminismo.
La storiografia del settecento italiano è emerso che nella fase terminale dell’antico regime, l’immagine del principe
come caput reipublicae s’imponeva sulle altre. Le attività di governo venivano determinate da funzioni e ragioni
specifiche, che avevano lo scopo di ordinare il caos.
Attraverso l’azione quotidiana svolta da Giuseppe Palmieri, Amministratore delle Dogane della Terra d’Otranto.
Dopo la caduta di Tanucci e il conseguente abbandono del modello di Stato già definito nelle istruzioni di re Carlo alla
Reggenza, sembrava proseguire verso una riforma di strutture tecniche di governo a cui affidare i compiti
amministrativi e giudiziari.
Negli anni 40 del 500, l’imperatore aveva strutturato gli apparati amministrativi creando organi di giustizia e di
amministrazione attiva, immuni dall’influenza dei grandi e dei magnati e gestiti da un ceto di burocrati.
Si era assistito, grazie all’emergere di figure più autorevoli magistrature Napoletane, ad un abbandono di un governo
feudale, libero nel suo potere locale.
L’idea di status andava scemando con l’affermarsi del pensiero economico, e con il progressivo esaurimento della
vecchia divisione ternaria della società.
La politica di Maria Carolina, sembrava per gli storici, naturale. Raffaele Ajello notò però che il governo degli anni 80
procedeva senza cautela tanto prodigata dal predecessore Carlo di Borbone nella sua azione politica. Quella politica si
formava di fatti grazie alla cerchia di uomini formata sotto il magistero. Apparvero anche i giudizi di Domenico
Caracciolo, dimostrando ostilità alla creazione del Consiglio che all’utilizzo delle Giunte.
Ferdinando Galiani espresse chiaramente circa il suo pensiero della politica economica di quegli anni, esaltando
l’importanza di riformare gli antichi e persistenti abusi da parte del sistema delle finanze e restituendo vigore alla
Nazione.
Proprio in merito all’istruzione, vengono elencate le competenze dell’organo. Tra di esse vi sono raffigurate: l’esame
“colla maggiore possibile accuratezza” dei “difetti” e dei “disordini” che vi sono nel ramo delle reali finanze e la
proposizione di progetti di riforma. Tutto ciò allo scopo di stabilire “un nuovo sistema di Finanze”, che avrebbe
dovuto corrispondere “alle nostre mire, ed alla tranquillità ed utile de’ nostri sudditi”. All’istruzione terza è previsto
un potere immediato di ispezione a vantaggio del Supremo Consiglio d’Azienda sul Tribunale della Sommaria,
sul Magistrato del Commercio, sulla stessa Soprintendenza della Real Azienda, ed ancora sulla Camera di S. Chiara,
sulla Giunta di Sicilia, sul Tribunale della Città e sulle sue Deputazioni. Dietro questa capacità ispettiva del Consiglio
d’Azienda si celava il tentativo di infliggere un durissimo colpo alle istituzioni del Regno.
All’istruzione quinta era infatti prevista un’allarmante eccezione: ovvero creare una certa dipendenza e generale ispezione del Consiglio di Azienda, dunque lasciare al tribunale del commercio tutto ciò ce spetta al commercio marittimo e così via.. Il che significava che nessun controllo fiscale era possibile sull’azione politica del ministro Acton. Restavano, inoltre, ancora in vita le Giunte per il ramo degli Allodiali, per il feudi devoluti, per i beni dei gesuiti, per la Posta.
Le istruzioni sesta, settima ed ottava prevedevano la composizione dell’organismo, i criteri di nomina del “Presidente Direttore”, relativamente all’“ordine” e “merito o qualità personali del soggetto”, e quelli dei consiglieri ordinari, prescelti “o dal ceto de’ cavalieri, o da qualunque altro, purché siano di requisiti necessari all’impiego che dovranno occupare”. Il vocabolario della meritocrazia utilizzato annoverava vocaboli, quali “zelo”, “probità”, “fermezza”, “accuratezza”, “intelligenza”, ma è quasi del tutto indifferente all’origine cetuale dei funzionari, com’è detto esplicitamente a proposito dei “cavalieri”. L’ordine dei togati risulta particolarmente penalizzato, perché uno solo dei posti di consigliere “dovrà destinarsi al ruolo dei togati”: e questa scelta è immediatamente giustificata dall’esigenza che vi sia persona “istruita delle cose legali e delle materie feudali e giurisdizionali”. A parte que- sta presenza tecnica di un togato la istruzione nona dimostra che è indifferente la provenienza degli altri membri: “rimarrà a disposizione del nostro sovrano arbitrio il prescegliere dall’ordine dei togati uno e più membri del Consiglio”.
Attraverso l’articolo, si evince la soppressione della Soprintendenza d’Azienda, che resiste fino al 1789:
“… Esaminerà finalmente il medesimo Consiglio colle stesse mire tutti gli interi arrendamenti e dogane, per rilevare quali sono quelle che impediscono i progressi dell’agricoltura, delle industrie e del commercio; come potrebbero riformarsi ed in quale maniera si potrebbero più facilmente amministrare, per togliersi gli infiniti abusi che in questo genere si commettono per colpa e frode de’ subalterni, ed officiali destinati alla percezione di tali rendite. Osserverà quanto concerne il superfluo numero di quelli e l’impropria di loro destinazione, come altresì il danno che deriva dall’impunità goduta nei passati disordini, acciò non produca più inquetudini ai nostri sudditi.”
Il significato che assumono i termini “economico”, politico e contenzioso rappresentano il superamento dell’antica falla funzionale tra prerogative burocratiche e quelle del vertice politico.
Alcuni testimoni estranei alla vicenda fanno emergere analisi e prospettive che riguardano il regno. In Particolare Luigi Giuseppe Arborio Gattinara di Bréme designa il consiglio di Azienda come “motore immobile”. L’Illuminismo europeo aveva indicato a Napoli la differenza tra metodi “strutturali” di governo e quelli “sovrastrutturali”, specchio dell’ideologia dietro cui si celava l’enorme potere politico del ceto dei togati napoletani.
In linea con questa testimonianza si pongono i giudizi ipercritici di Domenico Caracciolo, per formazione ed inclinazione culturale già ostile all’utilizzazione di organismi collegiali di governo. Egli condannò subito l’idea di un consiglio delle finanze, come in passato analoghe riserve aveva espresso sulle Giunte durante il governo del periodo tanucciano, sicché scrisse all’Acton il 24 ottobre 1782: “più importante di un minimo d’azienda è la scienza delle teorie generali per rendere l’amministrazione ben compartita”…
La ricomposizione del Consiglio e la prevalenza dei togati all’interno dell’organo esecutivo del Consiglio dimostra che qualcosa era mutata rispetto al progetto iniziale. Questa inversione di tendenza nella dialettica tra status e funzioni di governo potrebbe essere interpretata come il risultato evidente del- l’accumularsi di forti tensioni all’interno della società napoletana, a proposito del modo nuovo, “strutturale” di intendere l’amministrazione del regno. Quasi certamente il centro dello scontro doveva essere rappresentato dal problema della riforma degli arrendamenti. Nota è la forte commistione di interessi che coinvolgeva agenti della sfera della jurisdictio e titolari di consistenti fette di debito pubblico.
Capitolo 2
riconoscimento delle proprie capacità intellettuali e professionali. Il manoscritto del Salerni è una testimonianza estremamente lucida della situazione in cui versava questa provincia del regno napoletano, e un documento della volontà di riforma che animava l’autore F 7 3 2F 7 3 3. Divisa in tredici “riflessioni”, l’opera analizza con minuzia di particolari ogni aspetto della vita della Terra d’Otranto: dal quadro fisico, geografico e storico, alla situazione economica, politica e sociale, con uno studio attento al funzionamento delle istituzioni di governo e al calcolo della stratificazione sociale della Japigia, come Salerni ama chiamare questa terra. Il cui etimo egli fa derivare dal nome del mitico fondatore, Japeto, nipote del biblico Japhet, ultimo dei figli di Noè.
Per Salerni questa terra fu colonizzata dai Fenici e dai Caldei, e dopo dai Greci. Successiva alla distruzione della città di Troia, l’epoca greca fu l’inizio di un ciclo alto nella storia della provincia. Ma, con il successo militare e politico delle sue colonie e con la realizzazione di un estremo benessere economico, il deleterio “lusso” spezzò lo “spirito marziale”, decretando la fine di quella civiltà. Questo schema fisso della storia umana vede come passi progressivi lo scandirsi di “necessità”, “frugalità”, “coraggio”, “conquiste”, “comodo”, “ricchezze”, “lusso”, “mollezza dello spirito e delle forze”, ed infine “distruzione” e “decadenza”. Il centro della sua polemica nelle pagine iniziali diviene, allora, il “lusso”, anzi il “lussuoso fanatismo”.
L’autore avverte i prodromi di una crisi che incalza sulla provincia e incombe sulla monoculturale forma di sopravvivenza della zona, l’ulivocultura.
Filippo Briganti, intimo amico di Giuseppe Palmieri, con il quale probabilmente aveva condiviso gli studi nella capitale del regno, aveva più volte espresso paura per il declino della propria terra. La percezione che di quella crisi avevano i contemporanei, trova ora riscontro nelle più aggiornate ed avvertite ricostruzioni storiografiche sulle vicende dell’economia otrantina e delle altre province pugliesi. Maria Antonietta Visceglia, pur notando che l’esportazione dell’olio otrantino mantiene un andamento stabile fino alla fine del se- colo e che la tendenza alla contrazione si manifesta solo nella seconda metà dell’ultimo decennio del secolo, nota che i contemporanei ave- vano ben presente la fragilità di un’economia inserita in un contesto internazionale che condizionava profondamente gli equilibri della provincia e dell’intero regno.
Eppure gli anni Ottanta del “secolo dell’olio” avevano registrato l’ exploit delle esportazioni della Terra d’Otranto. Nel 1787 in una rappresentanza al re il Supremo Consiglio d’Azienda dimostrava l’aumento considerevole delle entrate statali nel corso degli ultimi quattro anni. Tuttavia, il 13 gennaio 1786, con una “ragionata rappresentanza” Giuseppe Palmieri aveva avvertito il Corradini, che il ricavato delle “immissioni” era più basso di quello che avrebbe dovuto essere, “poi- ché il prezzo di varie merci nella tariffa è molto inferiore al prezzo corrente, laddove questo regola la stima dell’estrazione dell’olio”.
Nella stessa relazione Palmieri indicava al Corradini i limiti dello sviluppo del commercio della provincia. In primo luogo egli deplorava la mancanza di “negozianti” indigeni. La distinzione tra “negozio” e “commercio” sarà poi ripresa nelle Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e nelle Osservazioni su vari articoli riguardanti la pubblica economia. Nella prima opera il Palmieri riflette sul fatto che il tornaconto che muove il mercante — ch’egli chiama “negoziante” o “agente del commercio” — diverge dall’interesse commerciale vero e proprio, che invece coincide con l’interesse della collettività nazionale. L’utilità commerciale per la nazione si ottiene con la vendita del “superfluo” al prezzo più alto possibile e l’acquisto del “mancante” al prezzo più basso. Mentre l’interesse del “negozio” è comunque l’ottimizzazione dei guadagni.
2.6 Dirigismo statale come soluzione alla crisi Nelle sue Riflessioni anche Salerni aveva offerto un’analisi uguale a quella di Palmieri ed esposto simili propositi di riforma. Scarso il numero dei negozianti indigeni, e quei pochi che vi erano commerciavano per conto di potenti monopolisti stranieri. Però, rispetto a Palmieri, Salerni insisteva di più sull’aspetto dello squilibrio commerciale nazionale, che veniva prodotto in massima parte dalle smodate importazioni di generi di lusso.
Agendo direttamente sul circuito provinciale del credito per le anticipazioni alle aziende agrarie, molto spesso costoro finivano per cercare l’appoggio della Sommaria per determinare un livello “legale” della “voce”. Nel caso del mercato granario settecentesco, è stato notato che il prezzo “legale” del grano era il termometro generale della congiuntura economica, e che per gli interessi che vi si trovavano coinvolti nella fase della determinazione nella “voce” si possono leggere i reali rapporti di forza che legavano azienda agricola e distribuzione, potere economico e potere politico. La proposta di Salerni consisteva nella costituzione di una società per “carati” sotto la protezione del monarca. I prestiti potevano essere garantiti con la stessa merce, che allo scopo si sarebbe conservata in depositi della società, anziché presso i negozianti. Il proprietario avrebbe potuto vendere “al piacer suo” la merce, e «prima di estrarlo dalla società le renda la ricevuta somma con l’interesse corrispondente».
2.7 Altre posizioni sul contratto alla “voce”
[Tali contratti sono inerenti l’agricoltura, vengono svolti da usurai, mentre i mercanti e i marinai vivevano nella miseria] Nelle Riflessioni sulla pubblica felicità egli proponeva l’intervento diretto dello Stato per la creazione di casse di credito, dette di “Carità”, perché fondate sulla logica del no–profit. Il denaro necessario poteva trarsi dalle entrate provinciali del fisco, «per breve spazio in tali Casse né divisati tempi, precedenti i coltivi e le raccolte».
Ma più incisive e più articolate sono le riflessioni sulla “voce”, sul credito in generale e sul ruolo dello stato e dei suoi agenti per la creazione di un’economia sana in Della ricchezza nazionale. Il contratto alla “voce”governava le relazioni tra mercanti e piccoli proprietari e contadini, mentre un’altra forma di contratto, detto a “liquidazione”, regolava la produzione ed il commercio.
2.8. Nomina di Palmieri
Il 18 luglio del 1786, Donato Reale, scriveva al principe del Supremo consiglio d’azienda che Giuseppe Palmieri aveva già accettato la carica di amministratore interno delle Dogane e Arredamenti della provincia. È certo, comunque, che l’estrazione sociale del Palmieri, marchese di Martignano, la sua posizione economica e la proprietà di ricchi e scelti uliveti, il servizio prestato nell’esercito nazionale, rispondevano ai requisiti che a fine secolo il governo napoletano richiedeva ai propri ufficiali.
2.9 Gestire una dogana: tecniche “strutturali” di amministrazione e modelli
A distanza di un anno dall’istituzione del Supremo Consiglio, Palmieri si trovò a dirigere la più importante e ricca delle tre dogane di Puglia. Ad essa erano annesse sette casse, delle quali quattro — Otranto, Gallipoli, Brindisi e Taranto —, erano gestite da altrettanti pro amministratori. Lo stesso Palmieri reggeva l’ufficio di amministratore dei sali del “dipartimento” di Otranto, nel quale era- no cinque “fondaci”: Brindisi, Castellaneta, Taranto, Gallipoli, Lecce ed Otranto. In ogni “dipartimento” erano inoltre presenti, su incarico del Soprintendente Generale e da lui dipendenti, ufficiali ad nutum ed amovibili, come i cassieri e gli impiegati tenuti per i “libri all’incontro”.
I compiti svolti dall’amministratore Palmieri dipendevano esclusiva- mente dai contatti ininterrotti con il suo diretto superiore gerarchico, il marchese Ferdinando Corradini. Il Palmieri poteva agire solo in virtù e a titolo degli incarichi che gli venivano assegnati. Così, ogni corrispondenza conteneva una fredda dichiarazione di fedeltà, che rappresentava allo stesso tempo legame e fonte di legittimazione della propria azione. Fin da subito il Palmieri creava la sua rete di fedeli, pur rimanendo legato al rispetto formale della scala gerarchica. Ad esempio, le sue proposte di nomina di sostituti dei funzionari a lui sottoposti — come ad esempio i Pro amministratori — venivano avallate dal Consiglio senza ingerenza alcuna.
Secondo Palmieri nell’esecuzione della legge l’elemento soggettivo riveste la stessa importanza del dettato normativo, perché anche un sistema esente da difetti legislativi può essere corrotto dall’azione del funzionario. Il primo modo per prevenire gli abusi del potere amministrativo consiste in una seria selezione del personale. Per cui il reclutamento deve tendere soprattutto all’introspezione psicologica dell’individuo che andrà a ricoprire un incarico pubblico. Per Palmieri la psicologia è metodo e pratica della politica, dunque del governo. Ma il salentino sostiene che una vera riforma dei quadri dei funzionari statali può avvenire solo a condizione che vengano modificati anche i principi sociali che hanno fino ad allora ispirato la politica del- l’attribuzione degli uffici.
2.10. Necessità dell’uniformità legale
Palmieri ricorda nelle Osservazioni il contenzioso che da amministratore si trovò a sostenere con i commercianti genovesi sulla autenticità di misura della merce imbarcata dalla Terra d’Otranto. Il 29 agosto 1786, il Supremo Consiglio delle Finanze inviava al marchese Porcinari, Delegato dell’Arrendamento dell’Olio e Sapone, la proposta di Giuseppe Palmieri sulla modifica del misura delle “pile”. L’Amministratore pugliese faceva notare che era necessaria una nuova visura delle “pile”. (serbatoi in pietra o cemento per la conservazione dell’olio.)
2.11. Critica di Palmieri al diritto comune
Palmieri fece anche una critica serrata alla giurisprudenza del diritto comune: «la moltitudine delle leggi genera confusione, e la moltitudine de’ ministri accresce la spesa pubblica, e privata, e tutte le due ritardano la spedizione degli affari».
Capitolo 3 I criteri di selezione del nuovo personale
3.1. il concorso Il 24 febbraio 1787 John Acton chiedeva a Giuseppe Palmieri se era disponibile a trasferirsi a Napoli per ricoprire il posto di membro del Supremo Consiglio delle Finanze F 7 3 1. Il 23 maggio dello stesso anno al marchese Palmieri, oramai
responsabile della Soprintendenza d’Azienda, giungeva notizia che il re aveva accolto la sua richiesta di nominare
come Amministratore delle Dogane di Lecce, D. Ignazio Marrese, patrizio tarantino. Il nome di Marrese era venuto
fuori dopo lo “scrutinio” fatto dal Palmieri e dai consiglieri del Supremo Consiglio dei “ricorsi” presentati dai
“pretendenti” al posto da lui lasciato.
Su incarico del Supremo Consiglio, Palmieri aveva esaminato le suppliche — veri e propri curricula vitarum — confrontato i titoli dei candidati, preso informazione su quanto autocertificato dai concor- renti, e ne aveva redatto i profili socio–professionali, psicologici e di attitudine all’impiego.
Il criterio meritocratico a cui Palmieri si ispirava, si può evincere dalla disposizione degli atti concorsuali e dai modi adoperati nel tracciare i profili dei candidati. Primo criterio logico regolatore, era stato quello di farne la divisione in tre classi, cioè: nella prima di coloro i quali si trovano addetti al servizio in vari impieghi; nella seconda quelli che hanno esposto i meriti propri e dei loro antenati; e nella terza coloro i quali desiderano di essere impiegati nel vostro Real Servizio, per farsi merito.
Il “buon governo” e i suoi progetti di riforma delle monarchie europee implicarono la formulazione di una nuova organizzazione degli apparati statali, al fine di migliorare le condizioni materiali delle attività produttive. Il rimodularsi della funzione politica delle monarchie e la crescente caratterizzazione di un dominio di “governo” comportarono diverse conseguenze sul piano organizzativo. I funzionari dell’amministrazione che avevano il compito di testare i nuovi tipi di rapporto tra potere centrale e peri- ferie, nel tentativo di “territorializzare” la propria attività. Tutto ciò rimetteva in discussione i vecchi assetti, le logiche e i comportamenti tradizionali dei vecchi agenti dello Stato.
Nel caso di Palmieri si nota come la logica dei suoi comportamenti gestionali fu ispirata a criteri di competenza tecnica e lealtà politica, mentre l’effetto della sua azione era quello di una crescita del potere reale nel momento dell’imposizione fiscale. Dopo l’istituzione del Supremo Consiglio delle Finanze si assisteva ad un processo di ri aggiustamento delle competenze e delle funzioni in campo fiscale, che aveva lo doppio scopo di demo- lire l’istituto della Soprintendenza d’Azienda e di sminuire il potere degli organi giurisdizionali.
3.2 La posta in gioco
I curricula presenti all’interno delle suppliche mostrano, pertanto, uno spaccato delle classi dirigenti del regno, mentre gli atti e le modalità di svolgimento del concorso manifestano l’esercizio concreto del potere di governo da parte del Supremo Consiglio d’Azienda. Per questa via ci è possibile comprendere come la diversa posizione sociale e professionale dei candidati offriva loro, da un lato, differenti percezioni del rapporto che li legava con il potere regale, e, dall’altro, diversi modi di comprendere la funzione che l’ufficio di governo ricopriva nell’economia nazionale e nell’apparato del governo borbonico. Sotto quest’ultimo aspetto, essendo la categoria dello scambio centrale nell’economia del Settecento, è chiaro che un amministratore di dogana sedeva su un osservatorio privilegiato, quasi unico per comprendere l’andamento dei mercati nazionali ed esteri. E detenere il controllo dell’informazione degli scambi, comportava la possibilità di svolgere un ruolo capitale nel controllo della produzione.
Si spiega così la richiesta di Domenico Brancaccio, membro dell’alta finanza napoletana, che, con candore disarmante, dichiarava di voler divenire amministratore doganale per far fronte al dissesto finanziario familiare. La sua famiglia aveva appena perduto una causa con lo Stato per l’enorme somma di 150 mila ducati. Ma, anche attraverso questa prospettiva, — sicuramente non secondaria nelle aspettative dei ricorrenti, perché in grado di impinguare notevolmente gli emolumenti dell’amministratore della dogana — è possibile misurare il grado di penetrazione che il nuovo paradigma politico della “governamentalità” aveva all’interno della società napoletana.
3.3 Ricorsi dei concorrenti e grazia del re Palmieri ed il Supremo Consiglio utilizzavano il vocabolo “ricorso” per definire le richieste dei concorrenti, contro l’uso pressoché univoco da parte degli stessi “ricorrenti” del vocabolo “supplica”. Mentre il “supplice” richiamava la funzione fondamentale, antica ed improntata all’alea, della “grazia” regale, nel vocabolario dei contemporanei l’accezione prevalente del termine giuridico “ricorso” era quella di uno dei molteplici tipi di atti con cui un soggetto si rivolgeva alla superiore autorità politico amministrativa o giudiziaria nei confronti di un comportamento ritenuto ingiusto di un’altra autorità inferiore.
La giustificazione religiosa ed ideologica di questa espressione del gubernaculum era stata tratta dalla tradizione tomistica aperta dalla Summa (raccolta di sentenze e dottrine) , secondo la quale la grazia divina non sovverte l’ordine naturale delle cose e degli avvenimenti umani, ma semmai provvedere a renderlo perfetto. Anche la Segreteria di Casa Reale usava il vocabolo “grazia” nel conferire l’amministrazione generale delle dogane ed arrendamenti della provincia di Lecce ad Ignazio Marrese. Ma, la “grazia” era il dominio del governo informale, cioè un “dono” legato alla liberalità del monarca e con il valore di una scelta libera ed insindacabile, che si contrapponeva a ciò che era “diritto”.
3.4 Criteri di merito Un criterio valido per procedere all’esame delle suppliche è quello di seguire l’ordine prescelto da Palmieri. Tra coloro che appartengono alla prima “rubrica”, ossia “quelli che si trovano addetti nell’attual servizio di V.M. in varj impieghi”, spiccano i titolari di uffici doganali, seguiti da ufficiali di altri settori dell’amministrazione cosiddetta “attiva”, ed un buon numero di ad- detti all’amministrazione della giustizia provinciale.
Alla seconda rubrica, appartengono quelli che hanno “esposto i meriti proprj, e del loro antenati”. La promiscuità dei “meriti proprj” con quelli degli “antenati”, mostra la lontananza notevole he separa il nobile Palmieri e i consiglieri delle finanze dall’ideologia di cui era stata esemplare opera letteraria la Vita civile di Paolo Mattia Doria.
Nella seconda “rubrica” sono infatti considerati esclusivamente coloro i quali hanno svolto per l’amministrazione spagnola o borbonica particolari tipi di servizi, non configurabili alla stregua di un impiego continuativo, e quelli che possono annoverare tra i loro “antenati”, sia nella linea diretta di discendenza che in quella collaterale, uomini di governo o di amministrazione, sia essa “attiva” che “passiva”. I “meriti” di cui scrive Palmieri e su cui giudica il Supremo Consiglio sono pertanto i servizi resi allo Stato.
All’ultima rubrica erano stati inseriti tutti coloro che “desiderano di essere impiegati nel vostro Real Servizio per farsi merito”. Tra i candidati figura Michele Torcia, il cui impiego di bibliotecario e di archivista nella Casa del SS. Salvatore non veniva considerata carica pertinente, così come il ruolo di segretario di Legazione.
3.5 Pombal come modello?
Sembra che il motivo della sovrapposizione di organi finanziari e quello della creazione di una nuova “meccanica doganale” avesse ad originario modello di governo il Portogallo del “rettilineo” marchese di Pombal.
Sebastião José de Carvalho, conte di Oeiras e poi marchese di Pombal aveva dominato la vita politica del suo paese, a partire degli anni 50 e fino all’anno del suo licenziamento, avvenuto nel 1777, a seguito della morte di re Giuseppe I. La politica di Pombal è stata interpretata come il tentativo di risposta al declino del commercio estero portoghese, che proprio negli anni Sessanta e Settanta vede diminuire i frutti della produzione coloniale e decrescere la domanda di importazioni da parte dell’Inghilterra. I nuovi funzionari portoghesi erano dunque un piccolo gruppo di burocrati con alta specializzazione e, nel volgere di pochi anni, diventarono la spina dorsale della monarchia assoluta. Inoltre, essi si distinguevano dai magistrati tradizionali per le modalità di selezione e di nomina e per la diversa professionalità. Una nuova élite che si sommava alle vecchie magistrature, allo scopo di sottrarre loro potere.
3.6. La selezione del personale statale nei decenni precedenti
Dalle suppliche della “prima rubrica”, infatti, un dato emerge su tutti: quello del lungo servizio dei nove funzionari di dogana che chiedono la promozione. La maggior parte di loro fu dunque nominata negli anni della Segreteria del marchese di Squillace e del Goyzueta. Conosciamo i criteri di selezione per l’accesso alle “officine” delle Segreterie di Stato durante quegli anni: la conoscenza personale, l’amicizia, la parentela, oltre alla cultura, erano gli unici canali per diventare ufficiali di segreteria. Ma queste norme che regolamentava- no l’accesso influivano anche sul tipo di rapporto di collaborazione professionale che si instaurava con il Segretario, dando ad esso un impronta molto personale. Diversa la situazione per le Segreterie più tecniche, come di Azienda, di Guerra e di Marina. Lì veniva richiesto personale con specifica preparazione tecnica, essendo addetto a compiti finanziari–contabili e tecnico–amministrativi molto specialistici.
Le aspettative della monarchia nei confronti di costoro erano talmente alte che era stata prevista anche l’equiparazione dei figli degli ufficiali di segreteria alla nobiltà generosa per l’accesso tra i cadetti dei Reggimenti provinciali, sancendo di fatto la loro appartenenza all’ élite politica e sociale del regno.
grezza siciliana o dell’olio otrantino — prodotti presenti sul mercato mediterraneo fin dalla prima età moderna — dimostra come ogni tipo di merce si muoveva per secoli nell’ambito di un schema pressoché immutabile.
Sicché, una parte del governo napoletano si muoveva in aperto contrasto con la politica estera anglosassone, che mirava invece a far uscire la propria nazione dall’isolamento diplomatico e spingeva affinché i paesi del bacino del Mediterraneo abbassassero gli alti dazi imposti ai propri prodotti manufatturieri. Le ragioni inglesi erano tal- mente chiare al partito riformista meridionale, ch’esso si mostrava abbastanza tiepido, se non addirittura ostile alla riapertura delle trattative. Sulla comprensione storica di quell’episodio ha sicuramente giocato un ruolo non secondario l’eccessiva fede riposta nella testimonianza diretta che di quella vicenda rese Giuseppe Maria Galanti.
4.2. i precedenti tentativi di ordine
Le dogane del regno furono governate da confuse politiche, con la mancanza di unità doganale e contrabbando costituendo il limite più grosso ad una politica economica a tutela dei propri interessi commerciali e che si contrapponesse alle pesanti intromissioni nella vita del paese. Debolezze conosciute dall’Inghilterra. In verità, fin dal 1741, il Supremo Magistrato del Commercio aveva cercato di moderare i diritti doganali, e in alcuni casi ne aveva previsto l’abolizione. Tuttavia, nel 1746 i possessori degli uffici interessati avevano fatto ricorso a Carlo di Borbone, offrendo la somma di 20.000 ducati in cambio della “rivoca di detto Reale Editto, e il permesso di esiggere a norma della pandetta antica”.
Nel 1753 le dogane del regno furono poi sottoposte alla visita del marchese di Squillace, a seguito della quale vennero limitati alcuni diritti ritenuti molto esorbitanti e venne dato mandato alla Regia Camera della Sommaria di procedere alla riforma delle tariffe doganali.
4.3. i primi passi verso la riforma: l’indagine governativa
Il 10 novembre 1786, il Palmieri rispondeva alla richiesta del Supremo Consiglio delle Finanze che gli aveva chiesto informazioni comparate tra uffici, emolumenti, soldi, tariffe esatte al momento vigenti e quanto aveva invece previsto il marchese di Squillace dopo la sua visita alle dogane del regno, compiuta nel 1753. Il Supremo Consiglio gli aveva infatti chiesto notizie sullo stato della situazione effettiva, per scoprire le incongruenze tra le disposizioni normative e il reale esercizio. Erano questi i primi passi del Supremo Consiglio delle Finanze lungo la strada della riforma del sistema doganale napoletano. Dopo aver comparato i dati dei diritti esatti e quelli che si sarebbero dovuto riscuotere secondo quanto previsto dalla visita dello Squillace, Palmieri notava «che siasi fuor di ogni dubbio fatte dal 1753 in poi una men doverosa esazione in pregiudizio del commercio».
Palmieri calcolava facilmente il profitto illecito, che ammontava a più della metà della “giusta” esazione. Ragione per la quale chiedeva al Supremo Consiglio la condanna dei due detentori di ufficio alla restituzione del maltolto a decorre dal 1773 previa verifica dei registri doganali per determinare gli esatti introiti illegali. Ancora peggio andavano le cose nella dogana di Gallipoli, dove il “doganiere”, i due “credenzieri” ed il “mastrodatti” esigevano diritti da strozzinaggio non previsti nell’autocertificazione rilasciata per la visita del marchese di Squillace.
4.4. La sconfitta
Negli stessi anni in cui il Supremo Consiglio delle Finanze andava preparando il piano di riforma e di razionalizzazione delle procedure di incasso, un’altra parte del governo napoletano cercava un accordo commerciale con l’Inghilterra. Abbiamo già avuto modo di notare come il piano pensato dal Supremo Consiglio proteggesse le mani- fatture meridionali dalla concorrenza straniera, adeguando le tariffe del regno a quelle degli altri Stati italiani ed alle spagnole. E che esso, malgrado la sua pubblicazione il 4 settembre 1789 il titolo della tariffa generale pella riscossione de’ dazi doganali nel Regno di Napoli , fu fortemente avversato, al punto da non entrare mai in vigore.
Nel 1790, Palmieri nelle Osservazioni su vari articoli riguardanti la pubblica economia , spiegando le ragioni del fallimento della riforma doganale, indicò con precisione le resistenze incontrate, le radici storiche del fenomeno e gli errori commessi nell’arco cronologico della dominazione spagnola. Al centro delle sue accuse vi erano i disordini dell’amministrazione della giustizia.
4.5. Palmieri di fronte alla sconfitta
Dopo il fallimento della riforma doganale, Palmieri si fermava a riflettere sull’intero processo di governa mentalizzazione dello stato borbonico. Giacché, spiegherà subito dopo in Della ricchezza nazionale , il commercio si è trasformato da “mezzo mostrato dalla natura a tutti gli uomini per soddisfare i loro bisogni, comodi e piaceri”, nella «cagione perenne e costante delle più basse e feroci passioni, le quali rotti i naturali legami hanno tutto sconvolto e disseminato per ogni dove le gelosie, le distruzioni e la guerra».
Palmieri sa bene che l’enorme peso della burocrazia napoletana è un ostacolo insormontabile ad ogni progetto di riforma economica. Il pugliese sa che «sarebbe pur follia il desiderare a’ nostri giorni gli esempi ed i sentimenti, che l’amor del pubblico produsse». Alla stessa maniera, egli propone una lotta senza esclusione di colpi anche nei confronti dei “monopolisti”, nemici implacabili del commercio, perché fanno degenerare in “spirito mercantile” quello commerciale.